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Gino Romiti | Post-Macchiaioli painter



Gino Romiti (1881-1967) was born in Livorno, Italy, in a family of modest economic conditions, this does not prevent him from cultivating his passion for art. Already at a young age he began to attend School Guglielmo Micheli, like many of his contemporaries Tuscan, where he was undoubtedly influenced by the great teacher inspires Giovanni Fattori. Among his classmates there were some, as Llewelyn Lloyd, who became the leader of the interesting Post-Macchiaioli, consists of those who, although moving in directions autonomous artistic, always maintained a close relationship with the pictorial tradition of Tuscany.








Romiti debuted in Milan in the Permanent 1891 and, completed his training at the studio in Micheli 1902, in 1903 participated at the International Art Exhibition in Venice, event to which he returned several times in subsequent years.
In the following years continued unabated his exhibitions. At the beginning of the twentieth century, Gino Romiti, was among the most accomplished artists who were to attend the Coffee Bardi. He, as well as participate in the vibrant artistic ferment, concorse, in 1911, the decoration of the spaces of local, alongside other artists and friends.
His work was interrupted in 1915 when he was called up and sent to Albania. Occasions to exhibit in 1918 paintings and drawings produced over the years, subject of military and military-related experience, in a solo show at his gallery in Florence.
The career of the artist, The first phase of which seemed from the stylistic dictates of Post-macchiaioli, turned towards more innovative when in languages 1920, together with other artists of Livorno, founded the Group Labronico, from their office and who was president from 1943-1967.
From 1922 exhibited several times in Florence and Livorno with solo artists along with other interesting and related to the pictorial tradition Post-Macchiaiolo Labronica. In 1931 also participated in the International Exhibition in Athens.
During World War II took refuge in Montuolo, in the province of Lucca, by 1942 the 1945 about.
He returned to Livorno filming an intense artistic production and exhibition, which helped to consolidate its market presence, making it one of the artists over Livorno in the collections. Over the years he continued to exhibit, also at the Venice Biennale, also devoting, particular attention to his activities as president of Group Labronico and is committed to promoting the art of Livorno, for example by being one of the organizers of the Round Award of Livorno.
He died in Livorno 1967.
Gino Romiti, like many of his contemporaries Livorno, took its first steps in the tradition of the great Tuscan masters, from Giovanni Fattori, up to the leaders of the movement of Post-Macchiaiolo, with whom he remained in contact in the early stages of his career. The definitions attributed to him to be impressionist or pointillist responded by declaring neither one nor the other, but both, he served as artistic expressions of all the bending function of expressing his will and his inner life on the canvas.
Through a stroke, which undoubtedly reflects the different currents which appeared the young and curious Romiti, He was able to create landscapes with extended atmospheres, thanks to the ability to create color combinations never excessive or unpleasant, but always calibrated, even when he decides to use the brighter ones. | giovannifattori.com











































Nato a Livorno il 5 maggio 1881, coetaneo dunque di Renato Natali, Amedeo Modigliani e Llewelyn Lloyd, di due anni appena più giovani i primi e di due più anziano l’italo-gallese­, Gino Romiti (1881-1967) aveva fatto ingresso nel 1897 nello studio di Guglielmo Micheli, dove sarebbe rimasto sino al 1901, subito orientando la propria maniera nella direzione di un semplificato verbo fattoriano, del quale Micheli era custode e tramite, contemporaneamente instaurando stretti e diretti rapporti con Giovanni Fattori stesso, solito trascorrere i mesi estivi a Livorno e dedicarsi agli studenti del suo affezionato allievo “Memo”.
Del tempo più antico della formazione del Nostro la tavoletta Casolare, autentica rarità per la sua precocissima datazione al 1898, svela un novizio dalla già notevole padronanza tecnica, rivelando un’attenzione principalmente rivolta ai valori atmosferici, resi abilmente nonostante una materia spessa e grassa; una peculiare pasta, alta e insistita, che mai è peraltro in Giovanni Fattori allora sempre più abbreviato e graffiante ­ né nel Micheli, ed un disegno che pur saldo resta sotterraneo e non incastona i piani, mentre ordinatissima è ancora la composizione, priva delle esasperazioni spaziali e delle forzature prospettiche tese ad inarcare lo spazio, caratteristiche della più tarda produzione del primo. Una lezione, quella tardo-fattoriana, che Romiti mostrerà aver sapientemente assimilato già l’anno seguente, quando tuttavia la predisposizione del giovane all’indagine e la volontà di alzarsi oltre la formula pedissequa emergeranno, in particolare, nell’attenzione con la quale dovette contemporaneamente volgersi ad indagare le coeve esperienze lombarde, come testimoniano i temi sociali e del lavoro più volte affrontati dal livornese nei primi anni del Novecento, e che tanto avevano trovato diffusione, particolarmente in ambito milanese, tra la fine del secolo XIX e l’inizio del successivo.
Certo è che, se Paesaggio agreste appare come opera imprescindibile alla comprensione dell’incipit del cammino dell’artista, cuore del corpus romitiano della collezione risulta inequivocabilmente essere la grande tela Tramonto, del 1920; testimonianza della più alta maturità dell’artista e rara, oltre che nelle dimensioni, pittoricamente per la gamma cromatica e la vigorosa energia sprigionata dal tramonto di fuoco che al limitar del giorno incendia l’orizzonte; l’oscurità già scesa sulla campagna che cinge stretta il fangoso cammino innanzi all’osservatore, quasi simbolicamente a conferire un senso di terrestre precarietà e di morte la zona inferiore, e di grandiosità ultraterrena il cielo.
La dimensione onirica dell’opera e la qualità visionaria e sovrannaturale della luce, sembrano poi riallacciarsi alle pitture realizzate dal Romiti all’aprirsi del secondo decennio del secolo, quando l’affiorare, nei lavori di maggior impegno ­ solitamente coincidenti con un più ampio formato ­, di un simbolismo naturalista e panteista venato d’una tensione latentemente romantica, emergeva in quelle tele singolarmente intrise di un’ansia di totalità, di quel senso di aspirazione dell’infinito, carico di mistero, tipico del romanticismo. Opere che seppur prive dei grandi spettacoli di potenza naturale ­ quelli che secondo Edmund Burke producono la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire ­ appaiono caratterizzate dal senso di raccoglimento e di solitudine, da quella contemplazione tanto profonda del creato che conduce a perdersi e sprofondare in esso; segnate dal senso di rapimento, di ammirazione e misterioso disagio di fronte all’infinito cui si ambisce immergersi ma dal quale si resta esclusi; dalla sensazione di infinitesimale piccolezza dell’essere umano ­ quasi una simbolica unità di misura nel rapporto con l’universalità ­, che comporta una misteriosa malinconia ed un inesauribile struggimento. Una tensione verso un’irraggiungibile dimensione divina che lascia apparir matura, nell’artista, quell’idea mistica della natura che indirettamente va riallacciandosi agli insegnamenti del teologo Ludwig Kosegarten ­ secondo i quali l’esperienza del creato conduceva a quella di Dio ­ che avevano orientato l’intero romanticismo tedesco e la sua profonda spiritualità.
In un tempo, quello, nel quale Romiti si spinge sino a rare incursioni, eccellenti per qualità ed originalità, all’interno del filone del simbolismo mitico, dalle cadenze già Liberty, allora di larga diffusione europea, che saggia abbandonando con decisione il dato naturale, si colloca un’opera come Cortile con galline, nella quale l’artista appare all’opposto intento a catturare di nuovo quasi impressionisticamente la mutevolezza della luce e dell’aria, come parallelamente sovente accade nei coevi lavori di piccolo formato, nei quali alle inquadrature talvolta come casuali fanno riscontro brani di sempre intensa liricità; testimonianze di una intatta ammirazione estatica per la bellezza del creato, di un desiderio di comunione con l’universo e quindi con Dio, progressivamente tuttavia sgomberate dell’ansia romantica che ne aveva contraddistinto l’atmosfera sul principiare del decennio, rivelando quel nuovo e più diretto approccio alla natura, scevro di qualsivoglia filtro mentale, che apparirà qualificare unicamente e definitivamente la pittura dell’artista tra il 1917 e il ’18, quando a Valona ­ parte del corpo di spedizione italiano in Albania ­ realizza una sessantina di piccole tavole che susciteranno l’apprezzamento dei colleghi e dei collezionisti.
Certo in Cortile, dove le luci filtrate bagnano e fanno vibrare la pittura in un trionfo di verdi smeraldo e di gialli vivissimi, la pennellata divisa ed il segno elegante e morbido, le paste ricchissime e lavorate, gli smalti larghi e suadenti, appaiono precisamente inseriti in ambito tardo-divisionista, e distanti ci appaiono dal sintetismo dettato dalla pennellata larga, mobile ed ondulante, di un’opera coeva come Natura morta con vaso: testimonianza di quell’intimismo che caratterizza sovente tra il 1916 ed il ‘19 la pittura del Nostro, e palese nei dimessi soggetti, improntati sui giochi d’ombra delle fioche luci d’interno, di molte delle opere di piccolo formato dell’artista.
Al contrario Plenilunio velato, del 1920 circa, brano dai morbidissimi accordi, steso il colore, che svaria tutte le tonalità del grigio, per delicatissimi passaggi, libero quasi d’ogni impianto disegnativo, nel senso di solitudine e d’infinito non manca di richiamare nuovamente ad una tensione mai sopita verso il divino, contemporaneamente alla memoria lasciando affiorare quel sapore boekliniano più volte percepibile in quel tempo ad intridere il paesaggio, specie quello marino, del livornese.
Sul finire del decennio, il definitivo abbandono della tela come supporto, in favore della tavola, lasciata costantemente affiorare a determinare chiarori e riflessi luminosi, e sulla quale, sempre più largamente, tessere di lontana memoria divisionista, irregolari e vibranti, preziose come gemme, vanno a creare tassellature smaltate e splendenti, è testimoniato dalla Campagna, datata 1929: solare e luminosissimo brano di pittura nel quale protagonista assoluta è la natura; la quiete assoluta dei silenti spazi delle colline livornesi, nei quali tutto scorre eppur tutto resta come sospeso: un attimo rapito nel quale, come ebbe a scrivere Plinio Nomellini per la presentazione in catalogo alla personale di Romiti del gennaio 1930 a Bottega d’Arte, “non c’è tristezza, sebbene melanconia lievemente soffusa per tutto, talvolta maliosa”.
Numerose, e non qui singolarmente menzionabili, sono poi le piccole tavole, presenti in collezione, databili al quarto decennio del secolo, quando, abbandonata definitivamente la grande dimensione, predilette dall’artista sono le marine, accordate sui grigi e gli argenti o avvolte in sapienti notturni, nelle quali sovente in primo piano sono le scogliere che subito si aprono su di un mare ora immoto a riflettere la luce, ora inquieto ma mai fragoroso; e con esse, altrettanto caratteristiche, le periferiche strade polverose, spesso deserte, racchiuse tra muri corrosi e siepi che chiudono allo sguardo lo svoltare, memori delle prospettive forzate di Giovanni Fattori; ed ancora il solare lungomare d’Ardenza e d’Antignano, disseminato di pini, oleandri e tamerici. Un tempo, questo, in cui la pittura si fa magra e velata, le tavole sempre più scoperte, toccate appena da un colore leggerissimo, trasparente, segnate da un intrico di segni a lapis di fattoriana memoria, sottili e vibranti. Nettezza delle forme, ricerca minuta dei particolari, segno quasi inciso tant’è la precisione che lo definisce, accompagnato dalla suggestione delicata del colore, saranno peculiarità di molte tra le opere eseguite nel corso degli anni Quaranta, nitidissime sempre nel grafismo quasi calligrafico e nella preziosità della luce. Opere, tuttavia, che testimoniano come la coerenza che sempre ha contraddistinto Romiti in questi suoi primi cinquant’anni di pittura, non abbia significato mai immobilismo, adagiamento entro una formula o nei risultati conseguiti, ma sia stata piuttosto orgoglioso senso d'appartenenza; rinuncia di mode e facili entusiasmi; rifiuto per tutto quanto si distaccasse dalla natura, dall'uomo, e da Dio. | artealivorno.it