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Gian Lorenzo Bernini, uomo ed artista universale

Oltre ai suoi autoritratti e ad un ritratto fattogli dal Gaulli (Roma, Gall. Corsini), il Bernini è stato descritto fisicamente e moralmente da numerosi autori: basti ricordare lo Chantelou, ed il figlio Domenico, che lo disse "aspro di natura, fisso nelle operazioni, ardente nell'ira".
Egli fu l'artista più intimamente legato al cattolicesimo risorgente nella temperie postridentina, e non può esserci dubbio sulla sua convinzione religiosa; pare che negli anni successivi al 1630 la sua fede si fosse approfondita e che nell'ultimo periodo della sua vita frequentasse assiduamente gesuiti e oratoriani: era amico intimo dei padre G. P. Oliva, gesuita, per il quale disegnò il frontespizio al secondo volume delle Prediche (1664) e ebbe come consigliere spirituale anche un suo nipote, padre Marchesi, oratoriano.



Egli applicava lo spirito di Propaganda Fide all'espressione artistica e cercava di coinvolgere l'osservatore in una esperienza religiosa parallela alle suggestive visioni descritte da s. Ignazio negli Esercizi spirituali, che, insieme con l'Imitazione di Cristo, era fra i suoi libri più cari.
La fonte più sicura che ci sia rimasta per la teoria artistica del Bernini nei suoi ultimi anni è la documentazione lasciataci dallo Chantelou dei consigli da lui dati all'Accademia di Francia: egli riteneva necessario che l'Accademia possedesse calchi delle sculture antiche per l'istruzione dei principianti poiché pensava che il disegno dal vero, da solo, non bastasse.

L'idea della bellezza era quindi dal Bernini concepita in maniera tradizionale, e anche nella lista delle opere d'arte dell'antichità da lui preferite l'unica novità rispetto alla tradizione è rappresentata dall'inclusione della statua del Pasquino.


Era convinto che l'arte si fondasse su buoni principi teorici e sul "disegno".
La sua teoria artistica era basata sul pensiero antico: faceva infatti consistere la bellezza dell'arte, ivi compresa l'architettura, nella proporzione che era di origine divina.
Tuttavia nella pratica egli differiva dai classicisti tipo Poussin, allontanandosi nello svolgimento delle sue idee dalla fonte originaria e conferendo alle sue opere un significato del tutto nuovo.


Quanto all'antica questione del "paragone" fra le arti, il Bernini non mantenne una posizione costante, affermando la superiorità ora della pittura ora della scultura.
Lo Chantelou, convalidato in ciò dai più antichi biografi, riporta la lista dei più grandi pittori secondo il Bernini: al primo posto era Raffaello, seguivano poi il Correggio, Tiziano, Annibale Carracci. Tra i contemporanei egli, oltre a Guido Reni, ammirava molto anche Poussin.
Non molti sono i giudizi sugli scultori: pur criticando Michelangelo perché troppo freddo e anatomico, il Bernini fu il primo ad affermare che soprattutto nell'architettura egli aveva manifestato la sua grandezza, e col Buonarroti si trovava d'accordo nell'affermare che gli scultori, in quanto creano forme in rilievo, sono migliori architetti che i pittori.

Il Bernini riteneva con il Vasari che negli schizzi spesso si trova più talento e più vitalità che nelle opere finite ed è palese, nei suoi marmi, l'intenzione di conservare la libertà e la spontaneità degli schizzi; basti per questo leggere nello Chantelou come il Bernini si preparò a scolpire il ritratto di Luigi XIV, con la piena coscienza, cioè, che l'artista, nello scolpire in marmo i ritratti, doveva in certo qual modo forzare la materia per ottenere con gli effetti di luce e ombra quello che nel volto umano era dato dalle tinte naturali.


Per quanto riguarda l'architettura l'atteggíamento dei Bernini era quello di un "uomo dell'idea", ben lieto di lasciare l'esecuzione e i dettagli a un gruppo di specialisti.
Nella scultura, normalmente, adottava una via di mezzo tra questo sistema e quello dell'esecuzione diretta.
Col passare degli anni e l'aumentare delle commissioni egli fu spesso costretto a lasciare agli assistenti parti sempre più ampie.

Per ottenere che le opere risultassero il più possibile come se le avesse personalmente eseguite, il Bernini faceva assegnamento su disegni e modelli.
Questa pianificazione accurata era sconosciuta nel primo Rinascimento: Michelangelo aveva iniziato la pratica dei modellini in creta o cera come preparazione abituale dell'opera; il Bernini si valeva di questi mezzi sia per uso proprio sia per guidare i suoi assistenti.


Nel periodo 1620-30 usò modelli in scala per opere di grandi dimensioni (il baldacchino; il Longino) e di nuovo verso la fine della sua vita per commissioni particolari (la cattedra).
I grandi modelli sono in genere opera di bottega; fra i piccoli bozzetti preparatori che ci sono rimasti fa eccezione quello piuttosto grande della statua equestre di Luigi XIV (Roma, Galleria Borghese).

Le prime manifestazioni del genio del Bernini pare siano stati i ritratti. Nel più antico fra i busti che ci sono rimasti, quello del Vescovo G. Bernini Santoni a S. Prassede, la testa infrange la tradizione per il vigore del modellato.
Il busto di Antonio Coppola (1612), da poco scoperto, renderà necessaria una nuova cronologia per tutte le sue opere giovanili.
All'inizio, del terzo decennio del secolo il Bernini andò al di là delle sue precedenti esperienze scultoree con busti come quelli di Monsignor Pedro de Foix Montoya (Roma, monastero di S. Maria di Monserrato, 1621) e del card. R. Bellarmino (Roma, chiesa del Gesù, 1622; originariamente sistemato in un insieme architettonico con figure di Pietro Bernini), che è presentato in un atteggiamento di "adorazione eterna".


In questi busti le proporzioni del corpo sono ingrandite, ottenendo così una maggiore efficacia realistica, e i tratti fisionornici sono descritti con acume e vivacità.
Ma l'arte ritrattistica del Bernini raggiunse la piena maturità con i busti del card.
Scipione Borghese (1632; ambedue a Roma, Gall. Borghese), nei quali troviamo per la prima volta un atteggiamento semplice, colloquiale.

Un disegno del Card. Borghese (New York, Morgan Library) pare sia l'unica testimonianza rimastaci del metodo berniniano di fissare in schizzi il soggetto nel suo atteggiamento abituale.
Il busto (il secondo fu scolpito per sostituire il primo il cui marmo era difettoso) mostra il cardinale già vecchio, in animata conversazione: è proprio caratteristica precipua delle opere del Bernini maturo questo rapporto diretto tra il personaggio e lo spettatore che diventa così interlocutore.


Le fonti di questo genere di ritratto sono nella pittura contemporanea (il realismo e la pittura di genere caravaggeschi, la ritrattistica semplice e intimista di Annibale Carracci) e nei busti romani di età repubblicana. Il Bernini tradusse in pietra i ritratti spontanei già di uso corrente, ma ebbe l'ardire di interpretare in questo modo anche i ritratti ufficiali che sinora erano sempre stati stilizzati e freddi.
Tra i numerosi busti del pontefice Urbano VIII bisogna ricordare il marmo nella collezione di Giulio Barberini (verso la fine del quarto decennio; versione in bronzo nella Bibl. Vaticana) e il busto in bronzo (1640-42) nel duomo di Spoleto.


La tomba di Urbano VIII ha una statua che ritrae il papa come appariva negli ultimi anni del terzo decennio. Una statua celebrativa nel palazzo dei Conservatori (1635-40) è in gran parte opera di aiuti.
In contrasto con queste opere di carattere ufficiale, e quindi ancora piuttosto tradizionaliste, è il busto di Costanza Bonarelli (c. 1635),un'opera unica nel suo genere di ritratto privato, che sembra preludere a Houdon nel suo realismo senza orpelli.

Una ulteriore evoluzione dell'arte ritrattistica del Bernini pare avviarsi dal busto di Carlo I d'Inghilterra (1636; distrutto) e da quello del Card. Richelieu (1640-41; Parigi, Louvre), in cui le spalle sono volte nella direzione opposta a quella della testa (i ritratti in gruppo della Famiglia Cornaro in S. Maria della Vittoria sono fuori dell'ordinario e vanno considerati assieme col più ampio complesso architettonico-decorativo di cui fanno parte).


Benché il Bernini abbia eseguito due ritratti di Innocenzo X,il ritratto più importante di questo periodo è quello di Francesco I d'Este (1650-51; Modena, Galleria Estense), dove si attuano nuove dimensionie una nuova dinamica: il contrapporsi dei moti dei corpo e del capo, già sperimentato negli anni precedenti, è dall'uso di un panneggio "antico" e dall'espressione imperiosa, in un assetto compositivo che rimase esemplare per ritratti principeschi nella scultura del secolo seguente.
Pochi furono I busti scolpiti dei Bernini in questo periodo: dopo il Francesco I d'Este, il Luigi XIV del 1665, che segue gli stessi motivi ed atteggiamenti, ma in una versione semplificata, più costruttiva.


L'ultimo ritratto fu il Gabriele Fonseca (Roma, S. Lorenzo in Lucina; c. 1674?), raffigurato in adorazione eterna come il suo giovanile Bellarmino, rappresentazione quasi espressionistica di fervore religioso con vivaci effetti coloristici di luce e ombra e esagerazioni di forme e sentimenti che rasentano la caricatura.

La stessa evoluzione, in senso lato, si può riscontrare, con alcune varianti, nelle statue: la maggior parte di esse ha qualche rapporto con la scultura antica, sempre filtrato attraverso un'interpretazione pittorica.
La prima che si conosca, la Capra Amaltea,scolpita per il cardinale Borghese (Galleria Borghese), per molto tempo è stata scambiata per una scultura ellenistica e può anche essere stata eseguita deliberatamente come falso, nella tradizione del Cupido di Michelangelo.


Le prime statue a soggetto religioso, il Martirio di s. Lorenzo (c. 1616, Firenze, coll. Contini Bonacossi) e quindi il S. Sebastiano (c. 1617), rivelano uno studio sempre più profondo di Michelangelo e una attenzione nuova al particolare realistico.
Il primo gruppo di proporzioni naturali, l'Enea e Anchise alla Galleria Borghese, ricalca lo stile di Pietro Bernini e sembra mancare di stabilità, con aspetti perfino manieristici, ma presenta qualche spunto realistico e per la posa di Enea si rifà al Cristo di Michelangelo alla Minerva (Roma).

Lo sviluppo del primo stile del Bernini è tracciato da una serie di opere famose scolpite tra il 1620 ed il 1624: Nettuno (c. 1620,Londra, Victoria and Albert Muscem); Il ratto di Proserpina, Apollo e Dafne, David (Roma, Galleria Borghese).


Il Bernini rifiutava la tradizione, rappresentata dal Giambologna, di statue autonome a tutto tondo, e coglieva invece un momento unico, culminante, dell'azione, percepibile immediatamente da un solo punto di vista.
Nel Ratto di Proserpina egli crea un gruppo a tre dimensioni, notevole per la resa sensuosa della carne, e riferibile, per il suo vigore, alle figure di Annibale Carracci nella Galleria Famese.
L'Apollo e Dafne è più pittorico, quasi un rilievo liberato del suo piano di fondo, e doveva essere visto appena si entrava nella stanza (la stessa dove il gruppo si trova attualmente, collocato erroneamente, in mezzo invece che contro una parete).


Nel David il Bernini affrontava un nuovo e affascinante problema che probabilmente gli si era presentato per la prima volta durante la lavorazione del Nettuno: comunicare allo spettatore sentimenti espressi dal soggetto, sì da coinvolgerlo nell'azione.
La identificazione tra spazio reale e spazio artistico che appare nel David è uno dei problemi centrali di gran parte dell'arte barocca negli anni a venire.
In qualche modo tutta la storia della ricerca artistica dei Bernini può delinearsi come lo svolgersi e l'arricchirsi di questo concetto.

Durante il pontificato di Urbano VIII il Bernini eseguì le grandi statue religiose: la S. Bibiana (Roma, S. Bibiana; 1624-26) traduce il dinamismo delle statue Borghese in un linguaggio più sereno, ma non per questo meno interessato allo spazio: la santa guarda in alto dalla sua nicchia verso una visione paradisiaca che è realmente dipinta nella volta.
Per la prima volta il Bernini usò qui una luce nascosta, "miracolosa", che simbolicamente cade sulla statua dall'alto. Lo stile delle statue del primo periodo raggiunge il suo acme nel colossale Longino di S. Pietro (1635-38), rappresentato nel momento della conversione, mentre afferra l'asta e volge lo sguardo alla cupola piena di luce della grande basilica.


In questa figura il Bernini adattò il dinamismo elettrizzante delle opere Borghese di soggetto ovidiano alle esigenze della Ecclesia triumphans.
Come nel busto di Scipione Borghese lo spettatore viene immesso nell'azione e nella psicologia dell'opera d'arte, con in più il significato propagandistico della conversione di Longino, proprio della Controriforma.

Nel terzo decennio del secolo il Bernini fu impegnato a risolvere i problemi di progettazione, e quindi di proporzioni, legati al grande baldacchino da erigersi sulla tomba di S. Pietro.
Era già stato deciso di usare colonne tortili derivate dall'arte paleocristiana, ma egli e i suoi aiuti dovevano ideare un coronamento appropriato, e la combinazione di scultura figurata (angeli, stemmi Barberini e papali) e architettura scultorea inaugura una fase nella storia dell'arte moderna, che vede architettura e scultura fuse in una nuova organica maniera. Un esempio di questa unione inscindibile di architettura e scultura è la fontana della Barcaccia (1627-29).


Nella Tomba di Urbano VIII è applicato un complesso concetto allegorico in cui si fa uso, in un procedimento nuovo, di materiali diversi a seconda dei vari gradi dell'allegoria.
Ma forse l'aspetto storicamente più importante delle statue del terzo e quarto decennio èancora da individuarsi sotto il profilo della tendenza a identificare le emozioni dello spettatore con quelle del soggetto: se prima lo spettatore era immerso nello spazio fisico della statua (David, Longino, Scipione Borghese), ora la sua stessa mente, i suoi sentimenti sono impegnati dal "concetto".
I massimi risultati in questo campo furono raggiunti nelle opere del quarto e quinto decennio che trovano riscontro nelle opere teatrali di questo periodo per il rapporto ardito, immediato, instaurato fra attori e spettatori. Appartengono a questo gruppo il ritratto di Scipione Borghese, il Longino, la Tomba di Urbano VIII, la fontana del Tritone (1642) e la Tomba di suor Maria Raggi (1643, S. Maria sopra Minerva).

Negli anni del quinto decennio e oltre il Bernini creò una serie di opere architettomche nelle quali la scultura e qualche volta anche la pittura intervengono per raggiungere effetti nuovi; opere che possono essere considerate il risultato indiretto delle sue ricerche per raggiungere nuovi punti dincontro tra l'esperienza artistica e quella umana.


La cappella Raimondi in S. Pietro in Montorio (c. 1640-46), eseguita tutta in pietra bianca in gran parte da allievi su disegni del Bernini, ha un altare in rilievo illuminato da luce proveniente da fonti nascoste laterali.
Nella cappella Comaro in S. Maria della Vittoria l'architettura stessa è nuova: la cappella è concepita come un complesso unitario, ma al tempo stesso vi è delineata una nicchia ovale entro la quale è collocato il gruppo marmoreo con la S. Teresa in estasi.
Il gruppo è concepito come un rilievo, illuminato dall'alto da una luce "miracolosa", che proviene da una fonte non identificabile e che ha il suo simbolo visivo in raggi di legno dorato.


La volta della cappella è invasa da una schiera di angeli dipinti e da nuvole dipinte sullo stucco che riveste le membrature architettoniche.
Tutta la visione sembra originata al momento della devota contemplazione dei membri della famiglia Cornaro, che vengono ritratti sulle due pareti laterali della cappella in gruppi di grande vitalità, benché solo uno di essi fosse effettivamente vivo: il committente, il card. Federico Comaro.

L'architettura è in marmi riccamente colorati, le sculture in marmo bianco spiccano con evidenza accentuata dai raggi dorati in legno e dalla luce reale, e anche la scena dipinta nella volta è riccamente colorata.
L'architettura, la pittura e la scultura sono connesse in modo tale che Domenico Bernini poteva dichiarare "havere il Cavaliere in quel gruppo superato se stesso, vinta l'arte, con Oggetto raro di maraviglia".


L'opera più spettacolare e scenografica del Bernini è la fontana dei Quattro fiumi (1648-51) che di nuovo si basa su di un concetto denso di significati: i quattro fiumi del mondo dominati dalla croce e dallo stemma papale.
Questa tendenza teatrale culmina nel grande complesso della cattedra di S. Pietro nell'abside della chiesa (1675-66).

Le figure in bronzo dorato dei santi Ambrogio, Atanasio, Giovanni Crisostomo e Agostino sembrano quasi sostenere la sedia di Pietro che è invece sospesa come per volere divino e questo soprannaturale potere si manifesta nella gloria aurata degli angeli sulle nuvole e nei raggi di luce che emanano dallo Spirito Santo dipinto sulla sovrastante vetrata ovale: tutta questa visione fa da cornice al sottostante altare papale.


In S. Andrea al Quirinale, sull'altare, angeli di marmo sostengono una Crocefissione del santo dipinta, mentre la figura del santo, scolpita dal Raggi, pare levarsi attraverso l'edicola verso la "cupola celeste" sovrastante che è sormontata da una lanterna, decorata all'interno dalla rappresentazione in stucco dello Spirito Santo.

Ma in S. Andrea, come in altre chiese del periodo compreso tra la fine del sesto e il settimo decennio, quella unione tra architettura, scultura e pittura raggiunta nella cappella Comaro non segue lo stesso orientamento: ormai ogni arte svolge uno specifico ruolo ad essa assegnato; ed è per questo che l'architettura berniniana più tarda è meno barocca e più classicista che non quella del quinto decennio.

Ma la sua funzione è mutata nel senso di una sorta di teatro nel quale le sculture sono gli attori del dramma religioso cui assistono i fedeli.
In queste e in più tarde opere la pittura ha una posizione sempre più subordinata.
Nella cappella Altieri in S. Francesco a Ripa (1674) la separazione tra le tre arti è netta e il quadro con la Sacra Famiglia (dei Baciccio) sull'altare è pura e semplice immagine di devozione, non parte di un più complesso concetto.


Anche l'architettura esterna del Bernini si proponeva di plasmare e indirizzare la esperienza umana verso la rivelazione divina.
Nella piazza S. Pietro (1653-63), l'opera più puramente architettonica, il porticato ricurvo di colonne tuscaniche suggerisce l'idea dell'abbraccio accogliente della Chiesa ma nello stessò tempo serve a mediare la visione della facciata di S. Pietro, alla quale il Bernini avrebbe voluto apportare alcune modifiche.

Le forme sobrie di questo colonnato sono ben lontane dall'esuberanza tradizionale dello stile barocco delle sue opere di questi anni - basti pensare alla fontana di piazza Navona, al busto di Francesco d'Este, alla cattedra di S. Pietro - e dimostrano la duttilità e versatilità dell'artista che trovava una forma adatta ad ogni esigenza.
La piazza è il risultato più grandioso dell'aspirazione del Bernini a imporre una determinata reazione all'esperienza umana in senso sia fisico sia psicologico.


In questa opera unica il Bernini usò quel modulo che poi impiegò nella sua chiesa più bella, la piccola chiesa di S. Andrea al Quirinale (1658-70): un ovale con il diametro più corto come asse principale.
Qui muri ricurvi racchiudono il breve spazio ai lati della facciata e introducono verso l'entrata. La facciata, lontana dallo schema tradizionale, appare come la fantasiosa versione di un grande portale.

La chiesa dell'Ariccia (1662-64) s'ispira al Pantheon e vuole essere una dimostrazione, secondo il punto di vista dell'artista, di come esso doveva apparire nell'antichità. Dopo poco il Bernini dimostrava anche la sua piena padronanza della tradizione architettonica nella facciata dei palazzo Chigi Odescalchi ai SS. Apostoli (cominciato nell'anno 1664; raddoppiato nelle dimensioni e quindi rovinato nelle proporzioni nel secolo successivo), dove le idee enunciate dal Bramante e sviluppate da Michelangelo, Vignola e Palladio trovano matura interpretazione in un disegno magistrale che deve essere collocato tra le opere più grandi del secolo.


Nello stesso periodo il Bernini iniziava la sua serie di progetti per il Louvre; il primo è molto diverso dagli altri e non piacque per le curve di cui fa uso, e in particolare per il grande corpo convesso al centro, benché esso abbia poi influenzato il Guarini e Fischer von Erlach.
I progetti successivi si andavano man mano avvicinando alla severità ordinata del palazzo Chigi Odescalchi, ma su scala molto maggiore.
Essi richiedevano l'abbattimento di tutto quanto era stato già costruito, ma non furono attuati.

La Scala regia (1663-66), che conduce dal porticato di S. Pietro al palazzo Vaticano, è forse il risultato più straordinario che il Bernini abbia ottenuto, mantenendosi fedele al linguaggio tradizionale rinnovato nel significato.


Il Bernini ebbe a disposizione uno spazio non ampio, che sfruttò abilmente allargandolo illusivamente con un partito ingegnoso: tutta la prima rampa è fiancheggiata da colonne che sostengono una volta a botte.
Sotto, dove c'era più spazio a disposizione, ha disposto le colonne ben distanti dal muro; più in alto, dove la gradinata si restringe mano a mano, le colonne sono collocate più vicino al muro e ridotte in altezza.

Con mezzi ottici viene cosi reso armonico uno spazio che non lo è.
Guardando dal basso si ha l'impressione che l'effetto di restringimento verso l'atto sia dovuto alla diminuzione prospettica che si è portati a correggere. mentalmente.
Alla base della rampa l'artista ideò la monumentale statua equestre di Costantino.


Nei lavori di restauro generale di S. Maria del Popolo (1655-61) il Bernini completò la decorazione della cappella Chigi di Raffaello con le due sculture di Daniele e Abacuc con l'Angelo, che furono collocate in angoli opposti dando un nuovo interesse spaziale a tutta la cappella.
Fra i più importanti esempi della sua tarda statuaria sono le singole figure della cattedra di S. Pietro, in cui troviamo alcune caratteristiche di esagerazione formale, comuni a gran parte della scultura tardobarocca: uno stile cui il Bernini diede l'avvio in questi anni e che continuò per varie generazioni in Italia, Austria e Germania.

Negli Angeli per il ponte S. Angelo (1668-69) l'affinamento e l'uso espressivo del modellato di luce e ombra raggiunge un più alto risultato emotivo eguagliato dal contemporaneo busto, quasi espressionistico, di Gabriele Fonseca (Roma, S. Lorenzo in Lucina) e dalla Tomba di Alessandro VII (1671-78) in S. Pietro (in cui le figure sono state eseguite da assistenti).


Tra le ultime opere dei Bernini bisogna ricordare l'altare della cappella del SS. Sacramento a S. Pietro con i due Angeli inginocchiati in adorazione (1673-74) e la già citata cappella Altieri in S. Francesco a Ripa (1674).
In quest'ultima, in uno spazio sopra l'altare, illuminata da finestre nascoste, la Beata Ludovica Albertoni giace in agonia.

La veste della beata, dalle ondulazioni profondamente scavate, ha quel significato espressionistico che il Bernini, già nel decennio precedente, aveva attribuito al panneggio.
L'umile, umana adorazione degli angeli nella cappella del SS. Sacramento, in contrasto con l'architettura senza tempo del sepolcro, è tipica dello stile tardo dell'artista: nei suoi ultimi anni egli sembra aver avvertito nelle inesorabili leggi dell'architettura un inquietante contrasto con la condizione transitoria dell'uomo, quasi esempio dell'antitesi tra il temporale e l'eterno.


Anche se l'attività pittorica dei Bernini fu del tutto marginale, egli esercitò una considerevole influenza sulla pittura del tempo.
Numerosi pittori collaborarono con lui, ma di essi solo il Baciccio, a quanto pare, eseguì da solo una importante decorazione in stile berniniano: la volta dei Gesù (1672-83).
Ben più grande fu l'ascendente esercitato sugli scultori: uno dei suoi primi assistenti, G. Finelli, per decenni continuò a Napoli il linguaggio berninano; e molto gli dovettero anche i suoi più grandi rivali, F. Duquesnoy e A. Algardi.


Alla metà del secolo si può dire che tutta la scultura a Roma era più o meno permeata del suo stile, e anche la scultura europea per un secolo dopo la sua morte seguì le vie tracciate da lui.
L'eredità del Bernini in architettura fu vasta e protratta, nel tempo: progetti singoli, come la chiesa dell'Ariccia, servirono da prototipi per numerose costruzioni specialmente del periodo neoclassico; la piazza S. Pietro esercitò un influsso ancora maggiore. Attraverso C. Fontana, lo stile del Bernini modificato in senso classicista raggiunse l'Austria (Fischer von Erlach) e perfino l'Inghilterra (James Gibbs).

I fratelli Asam in Baviera svilupparono al massimo l'idea berniniana dell'uso "teatrale" dell'architettura come messa in scena del "miracolo" scultoreo.
I progetti puramente architettonici del Bernini (Louvre, pal. Chigi-Odescalchi) agirono sugli architetti del XVIII sec. di Francia, Austria e Italia, in via di evoluzione verso il neo-classicismo.


Tra i figli del Bernini si ricorda, oltre al più noto Domenico Stefano, Paolo Valentino, il quale, nato a Roma il 14 febbr. 1648, fu educato dal padre alla scultura ma non lasciò quasi traccia nella storia dell'arte.
Secondo il Titi, aiutò il Bernini nell'esecuzione delle statue della cappella De Silva a S. Isidoro (1663); l0 accompagnò a Parigi (Chantelou) e nel 1670 fu pagato per uno degli Angeli di ponte S. Angelo (eseguito dal padre).
Membro dell'Accademia di S. Luca dal 1672, al Louvre è conservato un suo rilievo del Cristo bambino con gli strumenti della Passione (1665). Morì a Roma il 24 dic. 1728.

Pietro Filippo, sacerdote, prelato del tribunale della Segnatura, divenne canonico di S. Maria Maggiore nel 1663. Era nato intorno al 1641 e morì prima dei giugno 1698. | Fonte: Howard Hibbard © Treccani, Dizionario Biografico degli Italiani.