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Giorgio Vasari racconta Michelangelo Buonarroti, 1550

Mentre gli industriosi et egregii spiriti col lume del famosissimo Giotto e de gli altri seguaci suoi si sforzavano dar saggio al mondo de ’l valore che la benignità delle stelle e la proporzionata mistione degli umori aveva dato a gli ingegni loro e, desiderosi di imitare con la eccellenzia della arte la grandezza della natura, per venire il piú che e’ potevano a quella somma cognizione che molti chiamano intelligenzia, universalmente, ancora che indarno si affaticavano, il benignissimo Rettor del Cielo volse clemente gli occhi a la terra e, veduta la vana infinità di tante fatiche, gli ardentissimi studii senza alcun frutto e la opinione prosuntuosa degli uomini, assai piú lontana da ’l vero che le tenebre da la luce, per cavarci di tanti errori si dispose mandare in terra uno spirito, che universalmente in ciascheduna arte et in ogni professione fusse abile, operando per sé solo a mostrare che cosa siano le difficultà nella scienza delle linee, nella pittura, nel giudizio della scultura e nella invenzione della veramente garbata architettura.


E volse oltra ciò accompagnarlo de la vera filosofia morale, con l’ornamento della dolce poesia, acciò che il mondo lo eleggesse et ammirasse per suo singularissimo specchio nella vita, nell’opere, nella santità de i costumi et in tutte l’azzioni umane, e che da noi piú tosto celeste che terrena cosa si nominasse. E perché vide che nelle azzioni di tali esercizii et in queste arti singularissime, ciò è nella pittura, nella scultura e nell’architettura, gli ingegni toscani sempre sono stati fra gli altri sommamente elevati e grandi, per essere eglino molto osservanti alle fatiche et agli studii di tutte le facultà, sopra qual si voglia gente di Italia, volse dargli Fiorenza, dignissima fra l’altre città, per patria, per colmare alfine la perfezzione in lei meritamente di tutte le virtú, per mezzo d’un suo cittadino, avendo già mostrato un principio grandissimo e maraviglioso in Cimabue, in Giotto, in Donato, in Filippo Brunelleschi et in Lionardo da Vinci, per mezzo del quale non si poteva se non credere che col tempo si dovessi scoprire un ingegno che ci mostrasse perfettissimamente (mercé della sua bontà) l’infinito del fine.
Nacque dunque in Fiorenza l’anno MCCCCLXXIIII un figliuolo a Lodovico Simon Buonaroti, al quale pose nome al battesimo Michele Agnolo, volendo inferire costui essere cosa celeste e divina piú che mortale. E nacque nobilissimo, percioché i Simoni sono sempre stati nobili et onorevoli cittadini.

Aveva Lodovico molti figliuoli perché, essendo povero e grave di famiglia, con assai poca entrata, pose gli altri suoi figliuoli ad alcune arti, e solo si ritenne Michele Agnolo, il quale, molto da se stesso nella sua fanciullezza, attendeva a disegnare per le carte e pei muri. Onde Lodovico, avendo amistà con Domenico Ghirlandai pittore, andatosene a la sua bottega, gli ragionò a lungo di Michele Agnolo. Perché Domenico, visto alcuni suoi fogli imbrattati, giudicò essere in lui ingegno da farsi in questa arte mirabile e valente. Onde Lodovico, raccomandatosi a Domenico de ’l carico che gli pareva avere di sí grave famiglia, senza trarne utile alcuno, si dispose lasciargli Michele Agnolo, e convennero insieme di giusto et onesto salario, che in quel tempo cosí si costumava.


Prese Domenico il fanciullo per tre anni, e ne fecero una scrittura com’e’ ancora oggi appare a un giornale di Domenico Ghirlandai, scritto di sua mano, e di mano di esso Lodovico Buonaroti le ricevute tempo per tempo, le quali cose si ritrovano ora appresso di Ridolfo Ghirlandaio figliuolo di Domenico sopradetto.
Cresceva la virtú e la persona di Michele Agnolo di maniera che Domenico stupiva, vedendolo fare alcune cose fuor d’ordine di giovane, perché gli pareva che non solo vincesse gli altri discepoli de i quali aveva egli numero grande, ma ch’e’ paragonasse in molte le cose fatte da lui come maestro.

Ora advenne che, lavorando Domenico la cappella grande di Santa Maria Novella, un giorno ch’egli era fuori si mise Michele Agnolo a ritrarre di naturale il ponte con alcuni deschi, con tutte le masserizie dell’arte, et alcuni di que’ giovani che lavoravano.
Per il che, tornato Domenico, e visto il disegno di Michele Agnolo, disse: "Costui ne sa piú di me"; e rimase sbigottito della nuova maniera e della nuova imitazione che, dal giudizio datogli dal cielo, aveva un simil giovane in età cosí tenera, ch’invero era tanto quanto piú desiderar si potesse nella pratica d’uno artefice che avesse operato molti anni.


E ciò era che tutto il sapere e potere della grazia era nella natura esercitata dallo studio e dalla arte, perché in Michele Agnolo faceva ogni dí frutti piú divini che umani, come apertamente cominciò a dimostrarsi nel ritratto che e’ fece d’una carta di Alberto Durero, che gli dette nome grandissimo. Imperoché, essendo venuta in Firenze una istoria del detto Alberto, quando i diavoli battono Santo Antonio, stampata in rame, Michele Agnolo la ritrasse di penna, di maniera che non era conosciuta, e quella medesima coi colori dipinse; dove, per contraffare alcune strane forme di diavoli, andava a comperar pesci che avevano scoglie bizzarre di colori, e quivi dimostrò in questa cosa tanto valore, che e’ ne acquistò e credito e nome.

Teneva in quel tempo il Magnifico Lorenzo de' Medici nel suo giardino in su la piazza di San Marco, Bertoldo scultore, non tanto per custode o guardiano di molte belle anticaglie, che in quello aveva ragunate e raccolte con grande spesa, quanto perché, desiderando egli sommamente di creare una scuola di pittori e di scultori eccellenti, voleva che elli avessero per guida e per capo il sopra detto Bertoldo, che era discepolo di Donato. Et ancora che e’ fosse sí vecchio che e’ non potesse piú operare, era nientedimanco maestro molto pratico e molto reputato, non solo per avere diligentissimamente rinettato il getto de’ pergami di Donato suo maestro, ma per molti getti ancora che egli aveva fatti in bronzo, di battaglie e di alcune altre cose piccole, nel magisterio delle quali non si trovava allora in Firenze chi lo avanzasse.
Dolendosi adunque Lorenzo, che amor grandissimo portava alla pittura et alla scultura, che ne’ suoi tempi non si trovassero scultori celebrati e nobili, come si trovavano molti pittori di grandissimo pregio e fama, deliberò, come io dissi, fare una scuola; e per questo chiese a Domenico Ghirlandai che, se in bottega sua avesse de’ suoi giovani che inclinati fossero a ciò, li inviasse a ’l giardino, dove egli desiderava di esercitargli e creargli in una maniera, che onorasse e lui e la città sua.
Laonde da Domenico gli furono per ottimi giovani dati fra gli altri Michele Agnolo e Francesco Granaccio; per il che, andando eglino a ’l giardino, vi trovarono che il Torrigiano, giovane de’ Torrigiani, lavorava di terra certe figure tonde, che da Bertoldo gli erano state date. Michele Agnolo, vedendo questo, per emulazione alcune ne fece; dove Lorenzo, vedendo sí bello spirito, lo tenne sempre in molta aspettazione, et egli inanimito dopo alcuni giorni si mise a contrafare con un pezzo di marmo una testa antica che v’era. Onde Lorenzo, molto contento, ne fece gran festa e gli ordinò provisione, per aiutar suo padre e per crescergli animo, di cinque ducati il mese, e per rallegrarlo gli diede un mantello paonazzo, et al padre uno officio in dogana. Vero è che tutti quei giovani erano salariati, chi assai e chi poco, da la liberalità di quel magnifico e nobilissimo cittadino, e da lui, mentre ch’e’ visse, furono premiati.


Era il giardino tutto pieno d’anticaglie e di eccellenti cose molto adorno, per bellezza, per studio e per piacere ragunate in quel loco. Teneva di continuo Michele Agnolo la chiave di questo loco, e molto piú sollecito che gli altri in tutte le sue azzioni, e con viva fierezza sempre pronto si mostrava.
Disegnò molti mesi nel Carmino alle pitture di Masaccio, dove con tanto giudicio quelle opere ritraeva, che ne stupivano gli artefici e gli altri uomini, di maniera che gli cresceva l’invidia insieme col nome. Dicesi che, avendo il Torrigiano contratto seco amicizia e scherzando, mosso da invidia di vederlo piú onorato di lui e piú valente nell’arte, con tanta amorevolezza gli percosse d’un pugno il naso, che rotto e schiacciatolo di mala sorte lo segnò per sempre. Lavorò costui un fanciullo di marmo in una stanza, che lo comperò poi Baldessarre de ’l Milanese, dove, contrafacendo la maniera antica, fu portato a Roma e sotterrato in una vigna, onde cavatosi e tenuto per antico, fu venduto gran prezzo. Conobbe Michele Agnolo nel suo andare a Roma ch’egli era di sua mano, benché difficilmente ogni altro lo credesse.
Fece il Crocifisso di legno, ch’è in Santo Spirito di Fiorenza, posto ancora sopra il mezzo tondo dello altar maggiore. E pure in Fiorenza, nel palazzo de gli Strozzi, fece uno Ercole di marmo che fu stimato cosa mirabile, il quale fu poi da Giovan Batista della Palla condotto in Francia.
Dipinse nella maniera antica una tavola a tempera d’un San Francesco con le stimite, che è locato a man sinistra nella prima cappella di San Piero a Montorio in Roma. Venne volontà ad Agnolo Doni, cittadino fiorentino amico suo, sí come quello che molto si dilettava aver cose belle, cosí d’antichi come di moderni artefici, d’avere alcuna cosa di mano di Michele Agnolo, perché gli cominciò un tondo di pittura ch’è dentrovi una Nostra Donna, la quale, inginocchiata con amendua le gambe, alza in su le braccia un putto e porgelo a Giuseppo che lo riceve. Dove Michele Agnolo fa conoscere, nello svoltare della testa della madre di Cristo e nel tenere gli occhi fissi nella somma bellezza del Figliuolo, la maravigliosa sua contentezza e lo affetto del farne parte a quel santissimo vecchio.


Il quale con pari amore, tenerezza e reverenzia lo piglia, come benissimo si scorge nel volto suo, senza molto considerarlo. Né bastando questo a Michele Agnolo per mostrar maggiormente l’arte sua esser grandissima, fece nel campo di questa opera molti ignudi appoggiati, ritti et a sedere; e con tanta diligenzia e pulitezza lavorò questa opera, che certamente delle sue pitture in tavola, ancora che poche siano, è tenuta la piú finita e la piú bella che si truovi.
Finita che ella fu, la mandò a casa Agnolo coperta e, per un mandato con essa con una polizza, chiedeva settanta ducati per suo pagamento. Parve strano ad Agnolo, che era assegnata persona, spendere tanto in una pittura, se bene e’ conosceva che piú valesse, e disse al mandato che bastavano XL e gliene diede, onde Michele Agnolo gli rimandò in dietro, mandandogli a dire che cento ducati o la pittura gli rimandasse in dietro.
Per il che Agnolo, a cui l’opera piaceva, disse: "Io gli darò quei LXX"; et egli non fu contento, anzi per la poca fede d’Agnolo ne volle il doppio di quel che la prima volta ne aveva chiesto, per il che se Agnolo volse la pittura, fu sforzato mandargli CXL ducati. Vennegli volontà di trasferirsi a Roma, per le maraviglie ch’udiva de gli antichi, per che quivi giunto, fece nella casa de’ Galli, dirimpetto al palazzo di San Giorgio, un Bacco di marmo, maggior ch’el vivo, con un satiro attorno, nel quale si conosce che egli ha voluto tenere una certa mistione di membra maravigliose, e particularmente avergli dato la sveltezza della gioventú del maschio e la carnosità e tondezza della femmina: cosa tanto mirabile, che nelle statue mostrò essere eccellente piú d’ogni altro moderno, il quale fino allora avesse lavorato.

Per il che, nel suo stare a Roma acquistò tanto nello studio dell’arte, ch’era cosa incredibile vedere i pensieri alti e la maniera difficile con facilissima facilità da lui esercitata, tanto per ispavento di quegli che non erano usi a vedere cose tali, quanto a gli usi a le buone, perché le cose che si vedevano fatte, parevano nulla a paragone de’ suoi parti. Le quali cose destarono l’animo al Cardinale Rovano franzese, di lasciar per mezzo di sí raro artefice qualche degna memoria di sé in cosí famosa città, e gli fé fare una Pietà di marmo tutta tonda, la quale finita fu messa in San Pietro nella cappella della Vergine Maria della Febbre nel tempio di Marte.
Alla quale opera non pensi mai scultore né artefice raro potere aggiugnere di disegno, né di grazia, né con fatica poter mai di finitezza, pulitezza e di straforare il marmo tanto con arte, quanto Michele Agnolo vi fece, perché si scorge in quella tutto il valore et il potere dell’arte. Fra le cose belle che vi sono, oltra i panni divini suoi, si scorge il morto Cristo, e non si pensi alcuno di bellezza di membra e d’artifizio di corpo vedere uno ignudo tanto divino, né ancora un morto che piú simile al morto di quello paia.
Quivi è dolcissima aria di testa, et una concordanza ne’ muscoli delle braccia et in quelli del corpo e delle gambe, i polsi e le vene lavorate, che invero si maraviglia lo stupore che mano d’artefice abbia potuto sí divinamente e propriamente fare in pochissimo tempo cosa sí mirabile; che certo è un miracolo che un sasso da principio, senza forma nessuna, si sia mai ridotto a quella perfezzione che la natura a fatica suol formar nella carne. Poté l’amore di Michele Agnolo e la fatica insieme in questa opera tanto, che quivi quello che in altra opera piú non fece lasciò il suo nome scritto a traverso una cintola che il petto della Nostra Donna soccigne, come di cosa nella quale e sodisfatto e compiaciuto s’era per se medesimo.


E che è veramente tale che, come a vera figura e viva, disse un bellissimo spirito:

Bellezza et onestate
E doglia e pièta in vivo marmo morte,
Deh, come voi pur fate,
Non piangete sí forte,
Che anzi tempo risveglisi da morte,
E pur, mal grado suo,
Nostro Signore e tuo
Sposo, figliuolo e padre
Unica sposa sua figliuola e madre.

Laonde egli n’acquistò grandissima fama. E se bene alcuni, anzi goffi che no, dicono che egli abbia fatto la Nostra Donna troppo giovane, non s’accorgono e non sanno eglino che le persone vergini senza essere contaminate si mantengono e conservano l’aria de ’l viso loro gran tempo, senza alcuna macchia, e che gli afflitti come fu Cristo fanno il contrario? Onde tal cosa accrebbe assai piú gloria e fama alla virtú sua che tutte l’altre dinanzi.
Gli fu scritto di Fiorenza d’alcuni amici suoi che venisse, perché non era fuor di proposito che di quel marmo ch’era nell’opera guasto, egli, come già n’ebbe volontà ne cavasse una figura, il quale marmo Pier Soderini, già Gonfaloniere in quella città, ragionò di dare a Lionardo da Vinci: et era di nove braccia bellissimo, nel quale per mala sorte un maestro Simone da Fiesole aveva cominciato un gigante.
E sí mal concia era quella opera, che lo aveva bucato fra le gambe e tutto mal condotto e storpiato, di modo che gli operai di Santa Maria del Fiore, che sopra tal cosa erano, senza curar di finirlo, per morto l’avevano posto in abbandono e già molti anni era cosí stato et era tuttavia per istare.
Squadrollo Michele Agnolo un giorno et, esaminando potersi una ragionevole figura di quel sasso cavare, accomodandosi al sasso ch’era rimaso storpiato da maestro Simone, si risolse di chiederlo a gli operai, da i quali per cosa inutile gli fu conceduto, pensando che ogni cosa che se ne facesse, fosse migliore che lo essere nel quale allora si ritrovava, perché né spezzato né in quel modo concio, utile alcuno alla fabbrica non faceva.
Laonde Michele Agnolo, fatto un modello di cera, finse in quello per la insegna del palazzo un Davit giovane, con una frombola in mano, acciò che, sí come egli aveva difeso il suo popolo e governatolo con giustizia, cosí chi governava quella città dovesse animosamente difenderla e giustamente governarla. E lo cominciò nell’opera di Santa Maria del Fiore, nella quale fece una turata fra muro e tavole et il marmo circondato e, quello di continuo lavorando senza che nessuno il vedesse, a ultima perfezzione lo condusse.
E perché il marmo già da maestro Simone storpiato e guasto non era in alcuni luoghi tanto ch’alla volontà di Michele Agnolo bastasse, per quel che averebbe voluto fare, egli fece che rimasero in esso delle prime scarpellate di maestro Simone, nella estremità del marmo, delle quali ancora se ne vede alcuna. E certo fu miracolo quello di Michele Agnolo far risuscitare uno ch’era tenuto per morto. Era questa statua, quando finita fu, ridotta in tal termine, che varie furono le dispute che si fecero per condurla in piazza de’ Signori.


Perché Giuliano da San Gallo et Antonio suo fratello fecero un castello di legname fortissimo e quella figura coi canapi sospesero a quello, acciò che, scotendosi, non si troncasse, anzi venisse crollandosi sempre, e con le travi per terra piane, con argani la tirorono e la misero in opra, et egli, quando ella fu murata e finita, la discoperse, e veramente che questa opera ha tolto il grido a tutte le statue moderne et antiche, o greche o latine che elle si fossero, e si può dire che né ’l Marforio di Roma né il Tevere o ’l Nilo di Belvedere né i giganti di Monte Cavallo le sian simili in conto alcuno, con tanta misura e bellezza e con tanta bontà la finí Michel Agnolo. Perché in essa sono contorni di gambe bellissime et appiccature e sveltezza di fianchi divine; né mai piú s’è veduto un posamento sí dolce né grazia che tal cosa pareggi, né piedi, né mani, né testa che a ogni suo membro di bontà d’artificio e di parità, né di disegno s’accordi tanto. E certo chi vede questa non dee curarsi di vedere altra opera di scultura fatta nei nostri tempi o ne gli altri da qualsivoglia artefice.
N’ebbe Michel Agnolo da Pier Soderini per sua mercede scudi DCCC e fu rizzata l’anno MDIIII, e per la fama, che per questo acquistò nella scultura, fece al sopradetto Gonfalonieri un David di bronzo bellissimo, il quale egli mandò in Francia; et ancora in questo tempo abbozzò e non finí due tondi di marmo, uno a Taddeo Taddei, oggi in casa sua, et a Bartolomeo Pitti ne cominciò uno altro, il quale da fra’ Miniato Pitti di Monte Oliveto, intendente in molte scienze e particularmente nella pittura, fu donato a Luigi Guicciardini che gli era grande amico; le quali opere furono tenute egregie e mirabili. Et in questo tempo ancora bozzò una statua di marmo di San Matteo nell’opera di Santa Maria del Fiore. Avvenne che, dipignendo Lionardo da Vinci pittor rarissimo nella sala grande del Consiglio, come nella vita sua è narrato, Piero Soderini, allora Gonfaloniere, per la gran virtú che egli vide in Michele Agnolo, gli fece allogazione d’una parte di quella sala: onde fu cagione che egli facesse a concorrenza di Lionardo l’altra facciata, nella quale egli prese per subietto la guerra di Pisa.

Per il che Michele Agnolo ebbe una stanza nello spedale de’ Tintori a Santo Onofrio, e quivi cominciò un grandissimo cartone, né però volse mai ch’altri lo vedesse. E lo empié d’ignudi che, bagnandosi per lo caldo nel fiume d’Arno, in quello istante si dava all’arme nel campo, fingendo che gli inimici li assalissero; e mentre che fuor dell’acque uscivano per vestirsi i soldati, si vedeva dalle divine mani di Michele Agnolo disegnato chi tirava su uno, e chi calzandosi affrettava lo armarsi per dare aiuto a’ compagni; altri affibbiarsi la corazza, e molti mettersi altre armi indosso, et infiniti, combattendo a cavallo, cominciare la zuffa. Eravi fra l’altre figure un vecchio che aveva in testa per farsi ombra una ghirlanda d’ellera, il quale, postosi a sedere per mettersi le calze che non potevano entrargli per avere le gambe umide dell’acqua, e sentendo il tumulto de’ soldati e le grida et i romori de’ tamburini, affrettandosi tirava per forza una calza; et oltra che tutti i muscoli e nervi della figura si vedevano, faceva uno storcimento di bocca per il quale dimostrava assai quanto e’ pativa e che egli si adoperava fin alle punte de’ piedi. Eranvi tamborini ancora e figure che coi panni avvolti ignudi correvano verso la baruffa; e di stravaganti attitudini si scorgeva chi ritto e chi ginocchioni o piegato o sospeso a giacere, et in aria attaccati con iscorti difficili. V’erano ancora molte figure aggruppate et in varie maniere bozzate, chi contornato di carbone, chi disegnato di tratti e chi sfumato e con biacca lumeggiato, volendo egli mostrare quanto sapesse in tale professione. Per il che gli artefici stupidi e morti restorono, vedendo l’estremità dell’arte in tal carta per Michele Agnolo mostra loro. Onde veduto sí divine figure (dicono alcuni che le videro) di man sua e d’altri ancora non s’essere mai piú veduto cosa che della divinità dell’arte nessuno altro ingegno possa arrivarla mai.


E certamente è da credere, percioché dappoi che fu finito e portato alla sala del papa con gran romore dell’arte e grandissima gloria di Michele Agnolo, tutti coloro che su quel cartone studiarono e tal cosa disegnarono, come poi si seguitò molti anni in Fiorenza per forestieri e per terrazzani, diventarono persone in tale arte eccellenti, come vedemmo: poiché in tale cartone studiò Aristotile da San Gallo amico suo, Ridolfo Ghirlandaio, Francesco Granaccio, Baccio Bandinello et Alonso Berugotta spagnuolo; seguitò Andrea del Sarto, il Francia Bigio, Iacopo Sansovino, il Rosso, Maturino, Lorenzetto, e ’l Tribolo allora fanciullo, Iacopo da Pontormo e Perin del Vaga, i quali tutti ottimi maestri fiorentini furono e sono. Per il che, essendo questo cartone diventato uno studio di artefici, fu condotto in casa Medici nella sala grande di sopra, e tal cosa fu cagione che egli troppo a securtà nelle mani de gli artefici fu messo: perché nella infermità del Duca Giuliano, mentre nessuno badava a tal cosa, fu da loro stracciato, et in molti pezzi diviso, talché in molti luoghi se n’è sparto, come ne fanno fede alcuni pezzi che si veggono ancora in Mantova in casa Messer Uberto Strozzi gentiluomo mantovano, i quali con riverenza grande son tenuti. E certo che a vedere e’ sono piú tosto cosa divina che umana. Era talmente la fama di Michele Agnolo per la Pietà fatta, per il gigante di Fiorenza e per il cartone nota, che Giulio II Pontefice deliberò fargli fare la sepoltura e, fattolo venire di Fiorenza, fu a parlamento con esso e stabilirono insieme di fare una opera per memoria del papa e per testimonio della virtú di Michele Agnolo, la quale di bellezza, di superbia e d’invenzione passasse ogni antica imperiale sepoltura. La quale egli con grande animo cominciò, et andò a Carrara a cavar marmi e quegli a Fiorenza et a Roma condusse; e per tal cosa fece un modello tutto pieno di figure et addorno di cose difficili. E perché tale opera da ogni banda si potesse vedere, la cominciò isolata, e della opera del quadro, delle cornici e simili, ciò è dell’architettura de gli ornamenti, la quarta parte con sollecitudine finita.

Cominciò in questo mezzo alcune Vittorie ignude, che hanno sotto prigioni, et infinite provincie legate ad alcuni termini di marmo, i quali vi andavano per reggimento; e ne abbozzò una parte figurando i prigioni in varie attitudini a quelli legati, de i quali ancora sono a Roma in casa sua per finiti quattro prigioni. E similmente finí un Moisè di cinque braccia di marmo, alla quale statua non sarà mai cosa moderna alcuna che possa arrivare di bellezza, e de le antiche ancora si può dire il medesimo, avvenga che egli con gravissima attitudine sedendo, posa un braccio in su le tavole che egli tiene con una mano e con l’altra si tiene la barba, la quale nel marmo svellata e lunga, condotta di sorte, che i capegli, dove ha tanta difficultà la scultura, son condotti sottilissimamente piumosi, morbidi e sfilati d’una maniera, che pare impossibile che il ferro sia diventato pennello; et inoltre alla bellezza della faccia, che ha certo aria di vero santo e terribilissimo principe, pare che mentre lo guardi abbia voglia di chiederli il velo per coprirgli la faccia, tanto splendida e tanto lucida appare altrui. Et ha sí bene ritratto nel marmo la divinità che Dio aveva messo nel sacratissimo volto di quello, oltre che vi sono i panni straforati e finiti con bellissimo girar di lembi, e le braccia di muscoli, e le mani di ossature e nervi sono a tanta bellezza e perfezzione condotte, e le gambe appresso, e le ginocchia, et i piedi sono di sí fatti calzari accomodati, et è finito talmente ogni lavoro suo, che Moisè può piú oggi che mai chiamarsi amico di Dio, poiché tanto inanzi a gli altri ha voluto metter insieme e preparargli il corpo per la sua resurressione, per le mani di Michelagnolo; e seguitino gli Ebrei di andar, come fanno ogni sabato, a schiera, e maschi e femmine, come gli storni a visitarlo et adorarlo: che non cosa umana, ma divina adoreranno. Questa sepoltura è poi stata scoperta al tempo di Paulo III e finita col mezzo della liberalità di Francesco Maria Duca d’Urbino.

Venne in questo mezzo volontà al papa, che aveva ripresa Bologna e cacciatone fuora i Bentivogli, di far fare una statua di bronzo per quella memoria; e mentre che Michele Agnolo lavorava la sepoltura, fu fatto lasciare stare, e mandato a Bologna per la statua, dove fece una statua di bronzo a similitudine di Papa Giulio, cinque braccia d’altezza, nella quale usò arte bellissima nella attitudine, perché nel tutto aveva maestà e grandezza, e ne’ panni mostrava ricchezza e magnificenzia, e nel viso animo, forza, prontezza e terribilità. Questa fu posta in una nicchia, sopra la porta di San Petronio. Dicesi che, mentre Michele Agnolo la lavorava, vi capitò il Francia orefice e pittore per volerla vedere, avendo tanto sentito de le lodi e de la fama di lui e delle opere sue, e non avendone veduto alcuna. Furono adunque messi mezzani, perché vedesse questa, e n’ebbe grazia. Onde, veggendo egli l’artificio di Michele Agnolo, stupí.

Per il che fu da lui domandato che gli pareva di quella figura. Rispose il Francia che era un bellissimo getto. Intese Michele Agnolo che e’ lodasse piú il bronzo che l’artificio, perché sdegnato e con collera gli rispose: "Va’ al bordello tu e ’l Cossa, che siete due solennissimi goffi nell’arte".

Talché il povero Francia si tenne vituperatissimo in presenza di quegli che erano quivi. Dicesi che la Signoria di Bologna andò a vedere tale statua, la quale parve loro molto terribile e brava.

Per il che volti a Michele Agnolo gli dissero che l’aveva fatta in attitudine sí minacciosa, che pareva che desse loro la maledizzione, e non la benedizzione. Onde Michele Agnolo ridendo rispose: "Per la maledizzione è fatta".

L’ebbero a male quei signori, ma il papa, intendendo il tratto di Michele Agnolo, gli donò di piú trecento scudi. Questa statua fu poi ruinata da’ Bentivogli, e ’l bronzo di quella venduto al Duca Alfonso di Ferrara che ne fece una artiglieria, oggi chiamata la Giulia: salvo la testa, la quale ancora si trova ne la sua guarda roba.


Era già ritornato il papa in Roma e, mosso dall’amore che portava alla memoria del zio, sendo la volta della cappella di Sisto non dipinta, ordinò che ella si dipignesse. E si stimava per l’amicizia e parentela che era fra Raffaello e Bramante ch’ella non si dovesse allogare a Michelangelo. Ma pure per commissione del papa et ordine di Giulian da San Gallo fu mandato a Bologna per esso e, venuto che e’ fu, ordinò il papa che tal cappella facesse e tutte le facciate con la volta si rifacessero.

E per prezzo d’ogni cosa vi misero il numero di XV mila ducati. Per il che, sforzato Michele Agnolo dalla grandezza della impresa, si risolse di volere pigliare aiuto, e mandato per uomini e deliberato mostrare in tal cosa che quei che prima v’avevano dipinto dovevano essere prigioni delle fatiche sue, volse ancora mostrare a gli artefici moderni come si disegna e dipigne. Laonde il suggetto della cosa lo spinse andare tanto alto per la fama e per la salute dell’arte, che cominciò i cartoni a quella e, volendola colorire a fresco e non avendo fatto piú, fece venire da Fiorenza alcuni amici suoi pittori, perché a tal cosa gli porgessero aiuto et ancora per vedere il modo del lavorare a fresco da loro, nel quale v’erano alcuni pratichi molto, i quali si condussero a Roma e furono il Granaccio, Giulian Bugiardini, Iacopo di Sandro, l'Indaco Vecchio, Agnolo di Domenico et Aristotile e, dato principio all’opera, fece loro cominciare alcune cose per saggio.

Ma veduto le fatiche loro molto lontane da ’l desiderio suo e non sodisfacendogli, una mattina si risolse di gettare a terra ogni cosa che avevano fatto. E rinchiusosi nella cappella non volse mai aprir loro, né manco in casa, dove era, da essi si lasciò vedere. E cosí dalla beffa, la quale pareva loro che troppo durasse, presero partito, e con vergogna se ne tornarono a Fiorenza. Laonde Michele Agnolo preso ordine di far da sé tutta quella opera, a bonissimo termine la ridusse con ogni sollecitudine di fatica e di studio; né mai si lasciava vedere per non dare cagione che tal cosa s’avesse mostrare; onde ne gli animi delle genti nasceva ogni dí maggior desiderio di vederla.


Era Papa Giulio molto desideroso di vedere le imprese che faceva, per il che di questa che gli era nascosa venne in grandissimo desiderio; onde volse un giorno andare a vederla e non gli fu aperto, che Michele Agnolo non avrebbe voluto mostrarla. Per la qual cosa il papa, a cui di continuo cresceva la voglia, aveva tentati piú mezzi, di maniera che Michele Agnolo di tal cosa stava in grandissima gelosia, e dubitava molto ch’alcuni manovali o suoi garzoni non lo tradissero, corrotti dal premio, come e’ fecero. E per assicurarsi de’ suoi, comandandoli che a nessuno aprissero se ben fosse il papa, et essi promettendogliene, finse che voleva stare alcuni dí fuor di Roma e, replicato il comandamento, lasciò loro la chiave.

Ma partito da essi, si serrò nella cappella al lavoro, onde subitamente fu fatto ciò intendere al papa, perché, essendo fuori Michele Agnolo, pareva loro tempo comodo che Sua Santità venisse a piacer suo, aspettandone una bonissima mancia. Il papa, andato per entrar nella cappella, fu il primo che la testa ponesse dentro, et appena ebbe fatto un passo, che da l’ultimo ponte su ’l primo palco cominciò Michele Agnolo a gettar tavole. Per il che il papa vedutolo e, sapendo la natura sua, con non meno collera che paura, si mise in fuga minacciandolo molto. Michele Agnolo per una finestra della cappella si partí e, trovato Bramante da Urbino, gli lasciò la chiave dell’Opera, et in poste se ne tornò a Fiorenza, pensando che Bramante rappaceficasse il papa, parendogli invero aver fatto male.

Arrivato dunque a Fiorenza, et avendo sentito mormorare il papa in quella maniera, aveva fatto disegno di non tornare piú a Roma. Ma per gli preghi di Bramante e d’altri amici, passato la collera al papa e non volendo egli che tanta opera rimanesse imperfetta, scrisse a Pier Soderini allora Gonfaloniere in Fiorenza che Michele Agnolo a’ suoi piedi rimandasse, perché gli avea perdonato. Fu fatto da Piero a Michele Agnolo saper questo, ma egli era fermato di non ritornarci, non si fidando del papa. Onde Pietro deliberò mandarlo come ambasciadore per piú securezza sua, et egli con questa buona sicurtà, alla fine pur si condusse al papa. Era il Reverendissimo Cardinale di Volterra fratello di Pier Soderini, per il che gli fu inviato da Piero e raccomandato ch’al papa lo introducesse.

Onde nella giunta di Michele Agnolo, sentendosi il cardinale indisposto, mandò un suo vescovo di casa che per sua parte lo introducesse. Onde nello arrivare dinanzi al papa, che spasseggiando aveva una mazza in mano, per parte del cardinale e di Piero suo fratello gli offerse Michele Agnolo, dicendo tali uomini ignoranti essere e che egli per questo gli perdonasse. Venne collera al papa e con quel bastone rifrustò il vescovo dicendogli: "Ignorante sei tu".
E volto a Michele Agnolo benedicendolo se ne rise. Cosí Michele Agnolo fu di continuo poi con doni e con carezze trattenuto dal papa, e tanto lavorò per emendare l’errore, che l’opra alla fine perfettamente condusse.


La quale opera è veramente stata la lucerna che ha fatto tanto giovamento e lume all’arte della pittura, che ha bastato a illuminare il mondo per tante centinaia d’anni in tenebre stato. E nel vero non curi piú chi è pittore di vedere novità et invenzioni di attitudini, abbigliamenti addosso a figure, modi nuovi d’aria e terribilità di cose variamente dipinte, perché tutta quella perfezzione che si può dare a cosa che in tal magisterio si faccia a questa ha dato. Ma stupisca ora ogni uomo che in quella sa scorgere la bontà delle figure, la perfezzione de gli scorti, la stupendissima rotondità de i contorni, che hanno in sé grazia e sveltezza, girati con quella bella proporzione che ne i belli ignudi si vede. Ne’ quali per mostrar gli stremi e la perfezzione dell’arte, ve ne fece di tutte l’età, differenti d’aria e di forma, cosí nel viso come ne’ lineamenti, di aver piú sveltezza e grossezza nelle membra, come ancora si può conoscere nelle bellissime attitudini che differentemente e’ fanno sedendo e girando e sostenendo alcuni festoni di foglie di quercia e di ghiande messe per l’arme e per l’impresa di papa Giulio.

Denotando che a quel tempo et al governo suo era l’età dell’oro, per non essere allora la Italia ne’ travagli e nelle miserie che ella è stata poi, e cosí in mezzo di loro tengono alcune medaglie, dentrovi storie in bozza contrafatte di bronzo e d’oro, cavate da ’l Libro de’ Re. Senza che egli, per mostrare la perfezzione dell’arte e la grandezza di Dio, fece nelle storie il suo dividere la luce da le tenebre, nelle quali si vede la maestà sua che, con le braccia aperte, si sostiene sopra sé solo e mostra amore insieme et artifizio.

Nella seconda fece con bellissima discrezione et ingegno quando Dio fa il sole e la luna, dove è sostenuto da molti putti e mostrasi molto terribile per lo scorto delle braccia e delle gambe. Il medesimo fece nella medesima storia quando, benedetto la terra e fatto gli animali, volando si vede in quella volta una figura che scorta, e dove tu cammini per la cappella, continuo gira, e si voltan per ogni verso; cosí nella altra quando divide l’acqua da la terra: figure bellissime et acutezze d’ingegno degne solamente d’esser fatte dalle divinissime mani di Michelagnolo.

E cosí seguitò sotto a questo la creazione d’Adamo, dove ha figurato Dio portato da un gruppo di angeli ignudi e di tenera età, i quali par che sostenghino non solo una figura, ma tutto il peso del mondo, apparente tale mediante la venerabilissima maestà di quello e la maniera del moto, nel quale con un braccio cigne alcuni putti, quasi che egli si sostenga e, con l’altro, porge la mano destra a uno Adamo, figurato di bellezza, di attitudine e di dintorni di qualità che e’ par fatto di nuovo dal sommo e primo suo creatore, piú tosto che dal pennello o disegno d’uno uomo tale. Poco di sotto a questa in un’altra storia fa il suo cavar de la costa la madre nostra Eva, nella quale si vede quegli ignudi l’un quasi morto per esser prigion del sonno, e l’altra divenuta viva e fatta vigilantissima per la benedizione di Dio. Si conosce da ’l pennello di questo ingegnosissimo artefice interamente la differenza che è da ’l sonno a la vigilanzia, e quanto stabile e ferma possa apparire, umanamente parlando, la maestà divina.

Seguitale di sotto come Adamo, a le persuasioni d’una figura mezza donna e mezza serpe, prende la morte sua e nostra nel pomo, e veggonvisi egli et Eva cacciati di Paradiso. Dove nella figura dell’Angelo appare con grandezza e nobiltà la esecuzione del mandato d’un Signore adirato, e nella attitudine di Adamo il dispiacere del suo peccato, insieme con la paura della morte; come nella femmina similmente si conosce la vergogna, la viltà e la voglia del raccomandarsi, mediante il suo restringersi nelle braccia, giuntar le mani a palme e mettersi il collo in seno; e nel torcere la testa in verso l’Angelo, che ella ha piú paura della iustizia che speranza della misericordia divina. Né è di minor bellezza la storia del sacrifizio di Noè, dove sono chi porta le legne e chi soffia chinato nel fuoco et altri che scannano la vittima; la quale certo non è fatta con meno considerazione et accuratezza che le altre.

Usò l’arte medesima et il medesimo giudizio nella storia del Diluvio, dove appariscono diverse morti d’uomini, che, spaventati dal terrore di que’ giorni, cercano il piú che possono, per diverse vie, scampo alle lor vite. Percioché, nelle teste di quelle figure, si conosce la vita esser in preda della morte, non meno che la paura, il terrore et il disprezzo d’ogni cosa; vedevisi la pietà di molti che, aiutandosi l’un l’altro tirarsi al sommo d’un sasso, cercano scampo. Tra’ quali vi è uno che, abbracciato un mezzo morto, cerca il piú che può di camparlo, che la natura non lo mostra meglio. Non si può dire quanto sia bene espressa la storia di Noè quando, inebriato dal vino, dorme scoperto, et ha presenti un figliuolo che se ne ride e due che lo ricuoprono; storia e virtú d’artefice incomparabile e da non potere essere vinta se non da se medesima. Con ciò sia che come se ella per le cose fatte insino allora avessi preso animo, risorse e dimostrossi molto maggiore ne le cinque Sibille e ne’ sette profeti fatti qui di grandezza di cinque braccia l’uno e piú; dove in tutti sono attitudini varie e bellezza di panni e varietà di vestiri, e tutto insomma con invenzione e giudizio miracoloso, onde, a chi distingue gli affetti loro, appariscano divini.


Vedesi quel Ieremia, con le gambe incrocicchiate, tenersi una mano alla barba posando il gomito sopra il ginocchio, l’altra posar nel grembo et aver la testa chinata, d’una maniera che ben dimostra la malenconia, i pensieri, la cogitazione e l’amaritudine che egli ha de ’l suo popolo; cosí medesimamente due putti, che gli sono dietro; e similmente è nella prima Sibilla di sotto a lui verso la porta, nella quale, volendo esprimere la vecchiezza, oltra che egli, avviluppandola di panni, ha voluto mostrare che già i sangui sono aghiacciati dal tempo et inoltre, nel leggere, per aver la vista già logora, le fa accostare il libro alla vista accuratissimamente. Sotto questa figura è uno profeta vecchio, il quale ha una movenzia bellissima et è molto di panni abbigliato, che con una mano tiene un ruotolo di profezie e, con l’altra sollevata, voltando la testa, mostra volere parlare cose alte e grandi, e dietro ha due putti che gli tengono i libri.

Seguita sotto questi una sibilla, che fa il contrario di quella sibilla che di sopra dicemmo, perché, tenendo il libro lontano, cerca voltare una carta mentre ella con un ginocchio sopra l’altro si ferma in sé, pensando con gravità quel che ella de’ scrivere, finché un putto che gli è dietro, soffiando in uno stizzon di fuoco, gli accende la lucerna. La qual figura è di bellezza straordinaria per l’aria del viso e per la acconciatura del capo e per lo abbigliamento de’ panni, oltra che ella ha le braccia nude, le quali son come l’altre parti. Fece sotto a questa sibilla un altro profeta, il qual, fermatosi cosí sopra di sé, ha preso una carta e quella con ogni intenzione et affetto legge.

Dove, nello aspetto si conosce che egli si compiace tanto di quel che e’ truova scritto, che pare una persona viva quando ella ha applicato molto forte i suoi pensieri a qualche cosa. Similmente pose sopra la porta della cappella un vecchio, il quale, cercando per il libro scritto d’una cosa che egli non truova, sta con una gamba alta e l’altra bassa e, mentre che la furia del cercare quel ch’e’ non truova lo fa stare cosí, non si ricorda del disagio che egli in cosí fatta positura patisce. Questa figura è di bellissimo aspetto per la vecchiezza, et è di forma alquanto grossa et ha un panno con poche pieghe, che è bellissimo, oltra che e’ vi è un’altra sibilla che, voltando in verso l’altare da l’altra banda col mostrare alcune scritte, non è meno da lodare coi suoi putti che si siano l’altre.

Ma chi considererà quel profeta che gli è di sopra, il quale, stando molto fisso ne’ suoi pensieri, ha le gambe sopraposte l’una a l’altra e tiene una mano dentro al libro per segno del dove egli leggeva, ha posato l’altro braccio col gomito sopra il libro et appoggiato la gota alla mano, chiamato da un di quei putti che egli ha dietro, volge solamente la testa senza sconciarsi niente del resto, vedrà tratti veramente tolti da la natura stessa, vera madre dell’arte, e vedrà una figura che tutta bene studiata può insegnare largamente tutti i precetti del buon pittore.


Sopra a questo profeta è una vecchia bellissima che, mentre che ella siede, studia in un libro con una eccessiva grazia, e non senza belle attitudini di due putti che le sono intorno. Né si può pensare di imaginarsi di potere aggiugnere alla eccellenzia della figura di un giovane fatto per Daniello, il quale, scrivendo in un gran libro, cava di certe scritte alcune cose e le copia con una avidità incredibile. E per sostenimento di quel peso gli fece un putto fra le gambe, che lo regge mentre che egli scrive, il che non potrà mai paragonare pennello tenuto da qualsivoglia mano; cosí come la bellissima figura della Libica, la quale, avendo scritto un gran volume tratto da molti libri, sta con una attitudine donnesca per levarsi in piedi, et in un medesimo tempo mostra volere alzarsi e serrare il libro: cosa difficilissima per non dire impossibile ad ogni altro ch’al suo maestro.

Che si può egli dire de le quattro storie de’ canti, ne’ peducci di quella volta? Dove nell’una Davit, con quella forza puerile che piú si può, nella vincita d’un gigante spiccandoli il collo, fa stupire alcune teste di soldati, che sono intorno al campo; come fanno ancora maravigliare altrui le bellissime attitudini che egli fece nella storia di Iudit, nell’altro canto, nella quale apparisce il tronco di Oloferne che, privo de la testa, si risente, mentre che ella mette la morta testa in una cesta, in capo a una sua fantesca vecchia, la quale, per esser grande di persona, si china acciò che Iudit la possa aggiugnere per acconciarla bene; e mentre che ella tenendo le mani al peso cerca di ricoprirla, e voltando la testa in verso il tronco, il quale cosí morto nello alzare una gamba et un braccio fa romore dentro nel padiglione, mostra nella vista il timore del campo e la paura del morto: pittura veramente consideratissima.

Ma piú bella e piú divina di queste e di tutte l’altre ancora è la storia delle serpi di Mosè, la quale è sopra il sinistro canto dello altare, con ciò sia che in lei si vede la strage che fa de’ morti, il piovere, il pugnere et il mordere delle serpi, e vi apparisce quella che Mosè messe di bronzo sopra il legno; nella quale storia vivamente si conosce la diversità delle morti che fanno coloro che privi sono d’ogni speranza per il morso di quelle. Dove si vede il veleno atrocissimo far di spasimo e di paura morire infiniti, senza il legare le gambe et avvolgere a le braccia coloro che rimasti in quell’attitudine ch’egli erano non si possono muovere; senza le bellissime teste che gridano et arrovesciate si disperano. Né manco belli di tutti questi sono coloro che, riguardato il serpente, sentendosi nel riguardarlo alleggerire il dolore e rendere la vita, lo riguardono con affetto grandissimo, fra i quali si vede una femmina che è sostenuta da uno d’una maniera, che e’ si conosce non meno l’aiuto che le è porto da chi la regge, che il bisogno di lei in sí subita paura e puntura. Similmente nell’altra, dove Assuero, essendo in letto, legge i suoi annali, son figure molto belle, e tra l’altre vi si veggono tre figure a una tavola, che mangiano, nelle quali rappresenta il consiglio che si fece di liberare il popolo ebreo e di appiccare Aman; la qual figura fu da lui in scorto straordinariamente condotta, avvenga che finse il tronco che regge, la persona di colui e quel braccio che viene inanzi non dipinti, ma vivi e rilevati in fuori, cosí con quella gamba che manda inanzi e simile parti che vanno dentro; figura certamente fra le difficili e belle bellissima e difficilissima. Né si può dire la diversità delle cose, come panni, arie di teste et infinità di capricci straordinari e nuovi e bellissimamente considerati. Dove non è cosa che con ingegno non sia messa in atto; e tutte le figure che vi sono sono di scorti bellissimi et artifiziosi, et ogni cosa che si ammira è lodatissima e divina. Ma chi non ammirerà e non resterà smarrito veggendo la terribilità de l’Iona, ultima figura della cappella? Dove con la forza della arte la volta, che per natura viene innanzi girata dalla muraglia, sospinta dalla apparenza di quella figura che si piega in dietro, apparisce diritta e vinta da l’arte del disegno, ombre e lumi, pare che veramente si pieghi in dietro.


O veramente felice età nostra, o beati artefici, che ben cosí vi dovete chiamare, da che nel tempo vostro avete potuto al fonte di tanta chiarezza rischiarare le tenebrose luci degli occhi e vedere fattovi piano tutto quel ch’era difficile da sí maraviglioso e singulare artefice: certamente la gloria delle fatiche sue vi fa conoscere et onorare, da che ha tolto da voi quella benda che avevate inanzi gli occhi della mente, sí di tenebre piena, e v’ha scoperto il velo del falso, il quale v’adombrava le bellissime stanze dell’intelletto. Ringraziate di ciò dunque il cielo e sforzatevi d’imitar Michele Agnolo in tutte le cose. Sentissi nel discoprirla correre tutto il mondo d’ogni parte, e questo bastò per fare rimanere le persone trasecolate e mutole; laonde il papa, di tal cosa ingrandito e dato animo a sé di far maggiore impresa, con danari e ricchi doni rimunerò molto Michele Agnolo. Di che egli alla sepoltura ritornato, quella di continuo lavorando e parte mettendo in ordine disegni da potere condurre le facciate della cappella, volse la fortuna invidiosa che di tal memoria non si lasciasse quel fine che di tanta perfezzione aveva avuto principio: perché successe in quel tempo la morte di Papa Giulio, onde tal cosa si mise in abbandono per la creazione di Papa Leon X il quale d’animo e di valore non meno splendido che Giulio, aveva desiderio di lasciare nella patria sua per essere stato il primo pontefice di quella, in memoria di sé e d’uno artefice sí divino e suo cittadino, quelle maraviglie che un grandissimo principe come esso poteva fare. Per il che, dato ordine che la facciata di San Lorenzo di Fiorenza, chiesa dalla casa de’ Medici fabbricata, si facesse per lui, fu cagione che il lavoro della sepoltura di Giulio rimase imperfetto per un tempo.

Onde vari et infiniti furono i ragionamenti che circa ciò seguirono; perché tale opera averebbono voluto compartire in piú persone, e per l’architettura concorsero molti artefici a Roma al papa, e fecero disegni Baccio d’Agnolo, Antonio da San Gallo, Andrea Sansovino, il grazioso Raffaello da Urbino, il quale, nella venuta del papa, fu poi condotto a Fiorenza per tale effetto. Laonde Michele Agnolo si risolse di fare un modello, e non volere altro che lui in tal cosa, superiore o guida dell’architettura. Ma questo non volere aiuto fu cagione che né egli né altri operasse, e che quei maestri disperati a i loro soliti esercizi si ritornassero. E Michele Agnolo, andando a Carrara, passò da Fiorenza, con una commissione che da Iacopo Salviati gli fossero pagati mille scudi. Ma essendo nella giunta sua serrato Iacopo in camera per faccende con alcuni cittadini, Michele Agnolo non volle aspettare l’udienza, ma si partí senza far motto e subito andò a Carrara. Intese Iacopo de lo arrivo di Michele Agnolo, e non lo ritrovando in Fiorenza gli mandò i mille scudi a Carrara. Voleva il mandato che gli facesse la riceuta, al quale disse che erano per la spesa del papa e non per interesso suo, che gli riportasse che non usava far quitanza, né recevute per altri; onde per tema colui se ne ritornò senza a Iacopo.

Fece Michele Agnolo ancora per il palazzo de’ Medici un modello de le finestre inginocchiate a quelle stanze che sono sul canto, dove Giovanni da Udine lavorò quella camera di stucco e dipinse, ch’è cosa lodatissima, e fecevi fare ma con suo ordine, dal Piloto orefice quelle gelosie di rame straforato che son certo cosa mirabile. Consumò Michele Agnolo quattro anni in cavar marmi; vero è che, mentre si cavavano, fece modelli di cera et altre cose per l’opera. Ma tanto si prolungò questa impresa, che i denari del papa assegnati a questo lavoro si consumarono nella guerra di Lombardia, e l’opera per la morte di Leone rimase imperfetta, perch’altro non vi si fece che il fondamento dinanzi per reggerla, e condussesi da Carrara una colonna grande di marmo su la piazza di S. Lorenzo.

Spaventò la morte di Leone talmente gli artefici e le arti, et in Roma et in Fiorenza, che mentre che Adriano VI visse, Michele Agnolo s’attese alla sepoltura di Giulio. Ma morto Adriano e creato Clemente VII, il quale nelle arti della architettura, della scultura e della pittura fu non meno desideroso di lasciar fama, che Leone e gli altri suoi predecessori, chiamato Michele Agnolo e ragionando insieme di molte cose, si risolsero cominciar la sagrestia nuova di S. Lorenzo di Fiorenza. Laonde, partitosi di Roma, voltò la cupola che vi si vede, la quale di vario componimento fece lavorare, et al Piloto orefice fece fare una palla a 72 facce, ch’è bellissima. Accadde, mentre che e’ la voltava, che fu domandato da alcuni suoi amici: "Michele Agnolo, voi doverrete molto variare la vostra lanterna da quella di Filippo Bruneleschi", et egli rispose loro: "Egli si può ben variare, ma migliorare no".



Fecevi dentro quattro sepolture, per ornamento nelle facce, per li corpi de’ padri de’ due papi, Lorenzo Vecchio e Giuliano suo fratello, e per Giuliano fratel di Leone e per il Duca Lorenzo suo nipote. E perché egli la volle fare ad imitazione della sagrestia vecchia, che Filippo Brunelleschi aveva fatto, ma con altro ordine di ornamenti, vi fece dentro uno ornamento composito, nel piú vario e piú nuovo modo che per tempo alcuno gli antichi et i moderni maestri abbino potuto operare; perché nella novità di sí belle cornici, capitelli e basi, porte, tabernacoli e sepolture, fece assai diverso da quello che di misura, ordine e regola facevano gli uomini secondo il comune uso e secondo Vitruvio e le antichità, per non volere a quello aggiugnere. La quale licenza ha dato grande animo a questi che hanno veduto il far suo di mettersi a imitarlo, e nuove fantasie si sono vedute poi alla grottesca piú tosto che a ragione o regola, a’ loro ornamenti. Onde gli artefici gli hanno infinito e perpetuo obligo, avendo egli rotti i lacci e le catene delle cose, che per via d’una strada comune eglino di continuo operavano. Ma poi lo mostrò meglio e volse far conoscere tal cosa nella libreria di S. Lorenzo nel medesimo luogo, nel bel partimento delle finestre, nel ribattimento del palco e nella maravigliosa entrata di quel ricetto. Né si vide mai grazia piú risoluta nelle mensole, ne’ tabernacoli e nelle cornici straordinaria, né scala piú commoda: nella quale fece tanto bizzarre rotture di scaglioni e variò tanto da la comune usanza degli altri, che ognuno se ne stupí. Mandò in questo tempo Pietro Urbano pistolese suo creato a Roma a mettere in opra un Cristo ignudo che tiene la croce, il quale è una figura miracolosissima, che fu posto nella Minerva allato alla cappella maggiore per Messer Antonio Metelli. Seguitò in detta sagrestia l’opera; et in quella restò parte finite e parte no VII statue, nelle quali con le invenzioni della architettura delle sepolture è forza confessare che egli abbia avanzato ogni uomo in queste tre professioni.

Di che ne rendono ancora testimonio quelle statue, che da lui furono abbozzate e finite di marmo che in tal luogo si veggono: l’una è la Nostra Donna, la quale nella sua attitudine sedendo manda la gamba ritta addosso alla manca con posar ginocchio sopra ginocchio, et il putto inforcando le cosce in su quella che è piú alta, si storce con attitudine bellissima in verso la Madre chiedendo il latte, et ella con tenerlo con una mano e con l’altra appoggiandosi si piega per dargliene. Ancora che non siano finite le parti sue, si conosce nell’esser rimasta abozzata e gradinata nella imperfezzione della bozza la perfezzione dell’opra. Ma molto piú fece stupire ciascuno che considerando nel far le sepolture del Duca Giuliano e del Duca Lorenzo de’ Medici egli pensassi che non solo la terra fussi per la grandezza loro bastante a dar loro onorata sepoltura, ma volse che tutte le parti del mondo vi fossero, e che gli mettessero in mezzo e coprissero il lor sepolcro quattro statue: a uno pose la Notte et il Giorno, a l’altro l’Aurora et il Crepuscolo; le quali statue sono con bellissime forme di attitudini et artificio di muscoli lavorate, convenienti, se l’arte perduta fosse, a ritornarla nella pristina luce.

Vi son fra l’altre statue que’ due capitani armati, l’uno il pensoso Duca Lorenzo nel sembiante della saviezza, con bellissime gambe talmente fatte, ch’occhio non può veder meglio. L’altro il Duca Giuliano sí fiero con una testa e gola, con incassatura d’occhi, profilo di naso, sfenditura di bocca e capegli sí divini, mani, braccia, ginocchia e piedi; et insomma tutto quello che quivi fece è da fare che gli occhi né stancare né saziare vi si possono già mai. Veramente chi risguarda la bellezza de’ calzari e della corazza, celeste lo crede e non mortale. Ma che dirò io de la Aurora femmina ignuda e da fare uscire il maninconico dell’animo e smarrire lo stile alla scultura? Nella quale attitudine si conosce il suo sollecito levarsi sonnacchiosa, svilupparsi da le piume, perché par che, nel destarsi, ella abbia trovato serrati gl’occhi a quel gran duca. Onde si storce con amaritudine, dolendosi nella sua continovata bellezza in segno del gran dolore. E che potrò io dire della Notte, statua unica o rara? Chi è quello che abbia per alcun secolo in tale arte veduto mai statue antiche o moderne cosí fatte? Conoscendosi non solo la quiete di chi dorme, ma il dolore e la maninconia di chi perde cosa onorata e grande. Credasi pure che questa sia quella notte la quale oscuri tutti coloro che per alcun tempo nella scultura e nel disegno pensano, non dico di passarlo, ma di paragonarlo già mai. Nella qual figura, quella sonnolenzia si scorge che nelle imagini addormentate si vede.

Perché da persone dottissime furono in lode sua fatti molti versi latini e rime volgari come questi, de’ quali non si sa lo autore:

La Notte che tu vedi in sí dolci atti
Dormir, fu da uno angelo scolpita
In questo sasso; e perché dorme, ha vita:
Destala se no ’l credi, e parleratti.

A’ quali in persona della Notte rispose Michele Agnolo cosí:

Grato mi è il sonno, e piú l’esser di sasso
Mentre che il danno e la vergogna dura,
Non veder, non sentir mi è gran ventura:
Però non mi destar, deh parla basso.

E certo se la inimicizia ch’è tra la fortuna e la virtú, e la bontà d’una e la invidia dell’altra avesse lasciato condurre tal cosa a fine, poteva mostrare l’arte alla natura, ch’ella di gran lunga in ogni pensiero l’avanzava. Lavorando egli con sollecitudine e con amore grandissimo tali opere, venne lo impedimento dello assedio di Fiorenza, l’anno MDXXX; il quale fu cagione che poco o nulla egli piú vi lavorasse, avendogli i cittadini dato la cura di fortificare la terra. Con ciò sia che, avendo egli prestato a quella republica mille scudi e trovandosi de’ Nove della milizia, uficio deputato sopra la guerra, volse tutto il pensiero e lo animo suo a fortificare il poggio di San Miniato, in su il quale fece fare i bastioni con tanta diligenzia, che altrimenti non si farebbono da chi gli volesse piú là che eterni. Bene è vero che, stringendosi poi ogni giorno piú le cose dello assedio, per sicurtà della sua persona, egli pur finalmente si risolvé a partirsi di Fiorenza et andarsene a Vinegia. E per questo segretamente, che nessuno lo sapesse, fece provisione, menandone seco Antonio Mini suo creato e ’l Piloto orefice amico fido suo, e con essi portarono sul dosso uno imbottito per uno di scudi ne’ giubboni. Et a Ferrara condotti, riposandosi, avvenne che per gli sospetti della guerra e per la lega dello imperatore e del papa, ch’erano intorno a Fiorenza, il Duca Alfonso da Este teneva ordini in Ferrara e voleva sapere secretamente da gli osti che alloggiavano, i nomi di tutti coloro che ogni dí alloggiavano, e la lista de’ forestieri, di che nazione si fossero, ogni dí si faceva portare. Avvenne dunque che, essendo Michele Agnolo quivi con li suoi scavalcato, fu ciò per questa via noto al duca, perché egli, il quale fu principe di grande animo e mentre ch’e’ visse si dilettò continuamente delle virtú, mandò subito alcuni de’ primi della sua corte che per parte di Sua Eccellenzia in palazzo e dove era il duca lo conducessero, et i cavalli et ogni sua cosa levassero e bonissimo alloggiamento in palazzo gli dessero. Michele Agnolo, trovandosi in forza altrui, fu costretto ubbidire e, quel che vendere non poteva, donare, et al duca con coloro andò senza levare le robbe de l’osteria.

Perché, fattogli il duca accoglienze grandissime et appresso di ricchi et onorevoli doni, volse con buona provisione in Ferrara fermarlo, ma egli, non avendo a ciò l’animo intento, non vi volle restare. E pregatolo almeno che mentre la guerra durava non si partisse, il duca di nuovo gli fece offerte di tutto quello ch’era in poter suo. Onde Michele Agnolo, non volendo essere vinto di cortesia, lo ringraziò molto, e voltandosi verso i suoi due disse che aveva portato in Ferrara XII mila scudi, e che se gli bisognavano erano al piacer suo insieme con esso lui. Il duca lo menò a spasso per il palazzo, e quivi gli mostrò ciò ch’aveva di bello fino a un suo ritratto di mano di Tiziano, il quale fu da lui molto commendato. Né però lo poté mai fermare in palazzo, perché egli alla osteria volse ritornare, onde l’oste che lo alloggiava ebbe sotto mano dal duca infinite cose da fargli onore e commissione alla partita sua di non pigliare nulla del suo alloggio. Indi si condusse a Vinegia, dove, desiderando di conoscerlo molti gentiluomini, egli che sempre ebbe poca fantasia che di tale esercizio s’intendessero, si partí di Vinegia e si ritrasse ad abitare alla Giudecca.

Né molto vi stette che fatto fu l’accordo de la guerra, et egli a Fiorenza ritornò per ordine di Baccio Valori, nel quale ritorno diede fine a una Leda in tavola lavorata a tempera, che era divina, la quale mandò poi in Francia per Anton Mini suo creato. Cominciò ancora una figuretta di marmo per Baccio Valori, d’uno Apollo che cavava una freccia de ’l turcasso, acciò col favor suo fosse mezzano in fargli fare la pace col papa e con la casa de’ Medici, la quale era da lui stata molto ingiuriata. E per la virtú sua meritò che gli fosse perdonato, atteso ch’egli era molto volto a cose brutte e contra di loro aveva promesso fare disegni e statue ingiuriose, in vituperio di chi gli aveva dato il primo alimento nella sua povertà. Dicono ancora che nel tempo dello assedio gli nacque occasione per la voglia che prima aveva d’un sasso di marmo di nove braccia venuto da Carrara, che per gara e concorrenza fra loro, Papa Clemente lo aveva dato a Baccio Bandinelli; ma per essere tal cosa del publico, Michele Agnolo la chiese al Gonfaloniere, e glielo diedero che facesse il medesimo, avendo già Baccio fatto il modello e levato di molta pietra per abbozzarlo. Onde fece Michele Agnolo un modello, il quale fu tenuto maraviglioso e cosa molto vaga. Ma nel ritorno de’ Medici fu restituito a Baccio, perché a Michele Agnolo convenne andare a Roma a Papa Clemente.

Il quale, benché ingiuriato da lui, come amico della virtú gli perdonò ogni cosa, e gli diede ordine che tornasse a Fiorenza e che la libreria e la sagrestia di San Lorenzo si finissero del tutto. E per abbreviare tale opera una infinità di statue che ci andavano compartirono in altri maestri. Egli n’allogò due al Tribolo, una a Raffaello da Monte Lupo et una a Giovan Agnolo già suto frate de’ Servi, tutti scultori, e gli diede aiuto in esse faccendo a ciascuno i modelli in bozze di terra. Laonde tutti gagliardamente lavorarono et egli ancora alla libreria faceva attendere, onde si finí il palco di quella d’intagli in legnami con suoi modelli, i quali furono fatti per le mani del Carota e del Tasso fiorentini eccellenti intagliatori e maestri, et ancora di quadro. E similmente i banchi de i libri lavorati allora da Batista del Cinque e Ciappino amico suo buoni maestri in quella professione. E per darvi ultima fine fu condotto in Fiorenza Giovanni da Udine divino, il quale per lo stucco della tribuna insieme con altri suoi lavoranti et ancora maestri fiorentini, vi lavorò. Laonde con sollecitudine cercarono di dare fine a tanta impresa.

Perché, volendo Michele Agnolo far porre in opera le statue, in questo tempo al papa venne in animo di volerlo appresso di sé, avendo desiderio di fare la facciata della cappella di Sisto, dove egli aveva dipinto la volta a Giulio II. E già dato principio a’ disegni, successe la morte di Clemente VII, la quale fu cagione che egli non seguitò l’opera di Fiorenza, la quale, con tanto studio cercandosi di finire, pure rimase imperfetta, perché i maestri che per essa lavoravano, furono licenziati da chi non poteva piú spendere.

Successe poi la felicissima creazione di Papa Paulo terzo Farnese, domestico et amico suo, il quale, sapendo che l’animo di Michele Agnolo era di finire la già cominciata opera in Roma da se medesimo per la ultima sua memoria, fattigli fare i ponti, diede ordine che tale opera si continuasse; e cosí gli fece fare provisione di danari per ogni mese, et ordine poi da potere tal cosa seguitare. Perché egli con grandissima voglia e sollecitudine fece fare, che non v’era prima, una scarpa di mattoni alla facciata di detta cappella, che da la sommità di sopra pendeva inanzi un mezzo braccio, acciò col tempo la polvere fermare non si potesse, né a essa nocere già mai. E cosí seguitando quella con sua comodità verso la fine andava. In questo tempo Sua Santità volse vedere la cappella, e perché il maestro delle cerimonie usò prosunzione et entrovvi seco e biasimolla per li tanti ignudi, onde, volendosi vendicare, Michele Agnolo lo ritrasse di naturale nell’inferno nella figura di Minòs, fra un monte di diavoli.

Avvenne in questo tempo ch’egli cascò di non molto alto dal tavolato di questa opera, e, fattosi male a una gamba, per lo dolore e per la collera da nessuno non volse essere medicato. Per il che, trovandosi allora vivo Maestro Baccio Rontini fiorentino, amico suo e medico capriccioso e di quella virtú molto affezzionato, venendogli compassione di lui gli andò un giorno a picchiare a casa, e non gli essendo risposto da’ vicini né da lui, per alcune vie secrete cercò tanto di salire, che a Michele Agnolo di stanza in stanza pervenne, il quale era disperato. Laonde Maestro Baccio finché egli guarito non fu, non lo volle abbandonare già mai, né spiccarsegli dintorno.

Egli di questo male guarito e ritornato all’opera, et in quella di continuo lavorando, in pochi mesi a ultima fine la ridusse, dando tanta forza alle pitture di tal opera, che ha verificato il detto di Dante:

"Morti li morti e i vivi parean vivi".

E quivi si conosce la miseria de i dannati e l’allegrezza de’ beati. Onde, scoperto questo Giudizio, mostrò non solo essere vincitore de’ primi artefici che lavorato vi avevano, ma ancora nella volta ch’egli tanto celebrata avea fatta, volse vincere se stesso, et in quella, di gran lunga passatosi, superò se medesimo, avendosi egli immaginato il terrore di que’ giorni, dove egli fa rappresentare, per piú pena di chi non è ben vissuto, tutta la sua passione; faccendo portare in aria da diverse figure ignude la Croce, la colonna, la lancia, la spugna, i chiodi e la corona con diverse e varie attitudini molto difficilmente condotte a fine nella facilità loro. Evvi Cristo il qual, sedendo con faccia orribile e fiera, a i dannati si volge maladicendoli, non senza gran timore della Nostra Donna che, ristrettasi nel manto, ode e vede tanta ruina. Sonvi infinitissime figure che gli fanno cerchio di profeti, di Apostoli e particularmente Adamo e Santo Pietro, i quali si stimano che vi sien messi l’uno per l’origine prima delle genti al giudizio, l’altro per essere stato il primo fondamento della cristiana religione. A’ piedi gli è un S. Bartolomeo bellissimo, il qual mostra la pelle scorticata, evvi similmente uno ignudo di S. Lorenzo, oltra che senza numero sono infinitissimi santi e sante et altre figure maschi e femmine intorno, appresso e discosto, i quali si abbracciano e fannosi festa avendo per grazia di Dio e per guidardone delle opere loro la beatitudine eterna. Sono sotto i piedi di Cristo i sette angeli scritti da Santo Giovanni Evangelista con le sette trombe che, sonando a sentenzia, fanno arricciare i capelli a chi gli guarda per la terribilità che essi mostrano nel viso, e fra gli altri vi son due angeli che ciascuno ha il libro delle vite in mano; et appresso, non senza bellissima considerazione, si veggono i sette peccati mortali da una banda combattere in forma di diavoli e tirar giú a lo inferno l’anime che volano al cielo con attitudini bellissime e scorti molto mirabili.


Né ha restato nella resurressione de’ morti mostrare il modo come essi de la medesima terra ripiglian l’ossa e la carne, e come da altri vivi aiutati vanno volando al cielo, che da alcune anime già beate è lor porto aiuto, non senza vedersi tutte quelle parti di considerazioni che a una tanta opera come quella si possa stimare che si convenga.

Perché per lui si è fatto studii e fatiche d’ogni sorte, apparendo egualmente per tutta l’opera, e come chiaramente e particularmente ancora nella barca di Caronte si dimostra, il quale, con attitudine disperata, l’anime tirate da i diavoli giú nella barca batte col remo, ad imitazione di quello che espresse il suo famigliarissimo Dante quando disse:

Caron demonio, con occhi di bragia
Loro accennando, tutte le raccoglie;
Batte col remo qualunque si adagia.

Né si può imaginare quanto di varietà sia nelle teste di que’ diavoli, mostri veramente d’Inferno. Ne i peccatori si conosce il peccato e la tema insieme del danno eterno. Et oltra a ogni bellezza straordinaria è il vedere tanta opera sí unitamente dipinta e condotta, che ella pare fatta in un giorno e con quella fine che mai minio nessuno si condusse talmente. E nel vero la moltitudine delle figure, la terribilità e grandezza dell’opera è tale, che non si può descrivere, essendo piena di tutti i possibili umani affetti et avendogli tutti maravigliosamente espressi. Avvenga che i superbi, gli invidiosi, gli avari, i lussuriosi e gli altri cosí fatti si riconoschino agevolmente da ogni bello spirito, per avere osservato ogni decoro, sí d’aria, sí d’attitudini e sí d’ogni altra naturale circunstanzia nel figurarli. Cosa che se bene è maravigliosa e grande, non è stata impossibile a questo uomo, per essere stato sempre accorto e savio et aver visto uomini assai et acquistato quella cognizione con la pratica del mondo, che fanno i filosofi con la speculazione e per gli scritti. Talché, chi giudicioso e nella pittura intendente si trova, vede la terribilità dell’arte, et in quelle figure scorge i pensieri e gli affetti, i quali mai per altro che per lui non furono dipinti. Cosí vede ancora quivi come si fa il variare delle tante attitudini ne gli strani e diversi gesti di giovani, vecchi, maschi, femmine: ne i quali a chi non si mostra il terrore dell’arte insieme con quella grazia che egli aveva da la natura? Perché fa scuotere i cuori di tutti quegli che non son saputi, come di quegli che sanno in tal mestiero. Vi sono gli scorti che paiono di rilievo, e con la unione, la morbidezza e la finezza nelle parti delle dolcezze da lui dipinte, mostrano veramente come hanno da essere le pitture fatte da’ buoni e veri pittori.

E vedesi ne i contorni delle cose girate da lui, per una via che da altri che da lui non potrebbono esser fatte, il vero giudizio e la vera dannazione e ressurressione. E questo nell’arte nostra è quello esempio e quella gran pittura mandata da Dio a gli uomini in terra, acciò che veggano come il fato fa quando gli intelletti dal supremo grado in terra descendono, et hanno in essi infusa la grazia e la divinità del sapere. Questa opera mena prigioni legati quegli che di sapere l’arte si persuadono, e nel vedere i segni da lui tirati ne’ contorni di che cosa ella si sia, trema e teme ogni terribile spirto sia quanto si voglia carico di disegno. E mentre che si guardano le fatiche dell’opra sua, i sensi si stordiscono solo a pensare che cosa possono essere le altre pitture fatte e che si faranno, poste a tal paragone. Età veramente felice chiamar si puote e felicità della memoria di chi ha visto veramente stupenda maraviglia del secol nostro. Beatissimo e fortunatissimo Paulo III, poiché Dio consente che sotto la protezzion tua si ripari il vanto che daranno alla memoria sua e di te le penne de gli scrittori: quanto acquistano i meriti tuoi per le sue virtú? Certo fato bonissimo hanno a questo secolo nel suo nascere gli artefici, da che hanno veduto squarciato il velo delle difficultà di quello che si può fare et imaginare nelle pitture e sculture et architetture. Contempli ancora chi di maravigliare vuol finirsi, quante delle sue doti grandi abbia il cielo nel suo felicissimo ingegno infuso: le quali cose non solo consistono circa le difficultà dell’arte sua, ma fuor di quella, leggansi le bellissime canzoni e gli stupendi suoi sonetti, gravemente composti, sopra i quali i piú celebrati ingegni musici e poeti hanno fatto canti, e molti dotti le hanno comentate e lette publicamente nelle piú celebrate accademie di tutta Italia. Ha meritato ancora Michele Agnolo che la divina Marchesa di Pescara gli scriva, et opere faccia di lui cantando, et egli a lei un bellissimo disegno d’una Pietà mandò da lei chiestoli. Onde non pensi mai penna, o per lettere scritte, o per disegno da altri meglio che da lui essere adoperata, et il simile qualsivoglia altro stile o disegnatoio.


Sonsi veduti di suo in piú tempi bellissimi disegni, come già a Gherardo Perini amico suo, et al presente a Messer Tommaso de’ Cavalieri romano, che ne ha de gli stupendi, fra i quali è un Ratto di Ganimede, un Tizio et una Baccanaria, che col fiato non si farebbe piú d’unione. Vegghinsi i suoi cartoni, i quali non hanno avuto pari, come ancora ne fanno fede pezzi sparsi qua e là, e particularmente in casa Bindo Altoviti in Fiorenza uno di sua mano disegnato per la cappella, e tutti quegli che furono veduti in mano d’Antonio Mini suo creato, i quali portò in Francia, insieme col quadro della Leda, ch’egli fece; e quello d’una Venere, che donò a Bartolomeo Bettini di carbone finitissimo; e quello d’un Noli me tangere, che fu fatto per il marchese del Vasto, finiti poi co’ colori da Iacopo da Puntormo. Ma perché vado io cosí di cosa in cosa vagando? Basta sol dire questo, che dove egli ha posto la sua divina mano, quivi ha risuscitato ogni cosa e datole eternissima vita.

Ma per tornare all’opera della cappella, finito ch’egli ebbe il Giudicio, gli donò il papa il porto del Po di Piacenza, il quale gli dà d’entrata DC scudi l’anno, oltre alle sue provisioni ordinarie. E finita questa, gli fu fatto allogazione d’un’altra cappella, dove starà il Sacramento, detta la Paulina, nella quale dipigne due storie: una di San Pietro, l’altra di San Paulo, l’una dove Cristo dà le chiavi a Pietro, l’altra la terribile conversione di Paulo. In questo medesimo tempo egli cercò di dar fine a quella parte, che della sepoltura di Giulio secondo aveva in essere; et in San Pietro in Vincola in Roma fece murare non spendendo mai il tempo in altro, che in esercizio dell’arte, né giorno né notte, et egli s’è di continuo visto pronto a gli studi, et il suo andar solo, mostra come egli ha l’animo carico di pensieri. Cosí egli in breve tempo due figure di marmo finí, le quali in detta sepoltura pose, che mettono il Moisè in mezzo; e bozzato ancora in casa sua, quattro figure in un marmo, nelle quali è un Cristo deposto di croce; la quale opera può pensarsi, che se da lui finita al mondo restasse, ogni altra opra sua da quella superata sarebbe per la difficultà del cavar di quel sasso tante cose perfette.


Nelle azzioni di Michele Agnolo s’è sempre veduto religione, et in questo ultimo esemplo mirabile, ha fuggito il commerzio della corte quanto ha potuto; e solo domestichezza tenuto con quegli che o per le sue faccende hanno avuto bisogno di lui, o per termini di virtú veduti in loro è stato astretto amarli. A’ parenti suoi ha sempre porto aiuto onestamente, ma non s’ha curato d’avergli intorno. S’è ancora curato molto poco avere per casa artefici del mestiero, e tuttavia in quel ch’ha potuto ha giovato ad ognuno. Truovasi che non ha mai biasmato l’opere altrui, se egli prima non è stato o morso o percosso. Ha fatto per principi e privati molti disegni d’architettura, come nella chiesa di Santa Apollonia di Fiorenza, per avervi monaca una nipote, e cosí il disegno del Campidoglio, et a Luigi del Riccio suo domestico la sepoltura di Cecchino Bracci, e quella di Zanobi Montaguto disegnò egli perché Urbino le facesse.

Garzoni pochi del mestiero ha tenuti; solo tenne un Pietro Urbano pistolese et Antonio Mini fiorentino, la partita del quale molto gli dolse, quando per capriccio se n’andò in Francia; tuttavia remunerò molto i suoi servigi donandogli que’ disegni ch’io dissi di sopra, e la Leda, che aveva dipinta, la quale è oggi appresso il Re di Francia, e due casse di modegli lavorati di cera e di terra, i quali si smarrirono nella morte di lui in Francia. Prese in ultimo uno urbinate, il quale del continuo l’ha servito e governato, e sí da quello s’è trovato secondo l’animo suo sodisfatto, ch’è poco tempo ch’egli, ammalando, disse questo patire, perché giorno e notte governandolo non lo aveva abbandonato mai, e per essere egli vecchio fu questo dispiacere per terminargli la vita, nascendo questo da cordiale amore e da rispetto dell’obligo che gli pareva avere. Certamente si può far giudizio che di bontà d’animo, di prudenzia e di sapere nello esercizio suo, non l’abbia mai passato nessuno. E coloro tutti che a fantasticheria et a stranezza gli hanno attribuito l’allontanarsi da le pratiche, debbono scusarlo, perché veramente si può dire, che chi interamente vuole operare di perfezzione in tal mestiero, è sforzato quelle fuggire, perché la virtú vuol pensamento, solitudine e comodità, e non errare con la mente e disviarsi nelle pratiche. Cosí egli non ha mancato a se medesimo et ha giovato grandemente con lo affaticarsi a tutti gli artefici, e di onorati vestimenti ha sempre la sua virtú ornato, dilettatosi di bellissimi cavalli, perché essendo egli nato di nobilissimi cittadini ha mantenuto il grado, e mostrò il sapere di maraviglioso artefice.


Dopo tante sue fatiche, già alla età di LXIII anni s’è condotto, e di continuo sino al presente con bellissime e savie risposte s’ha fatto conoscere com’uom prudente, e stato nel suo dire molto coperto et ambiguo, avendo le cose sue quasi due sensi, et usato di dire sempre che le poche pratiche fanno vivere l’uomo in pace, benché ciò in questo ultimo possa egli male osservare; atteso che la morte di Anton da San Gallo gli ha fatto pigliar la cura della fabrica di Farnese del palazzo di Campo di Fiore e di quella di San Pietro. Essendogli ragionato de la morte da un suo amico, dicendogli che doveva assai dolergli, sendo stato in continue fatiche per le cose dell’arte, né mai avuto ristoro, rispose che tutto era nulla perché se la vita ci piace, essendo anco la morte di mano d’un medesimo maestro quella non ci dovrebbe dispiacere. A un cittadino che lo trovò a Orto San Michele in Fiorenza, che s’era fermato a riguardare la statua del San Marco di Donato, e lo domandò quel che di quella figura gli paresse, Michele Agnolo rispose che non vide mai figura che avesse piú aria di uomo da bene di quella, e che se San Marco era tale, si gli poteva credere ciò che aveva scritto. Gli fu mostro un disegno e raccomandato un fanciullo, che allora imparava a disegnare, scusandolo alcuni che egli era poco tempo che s’era posto all’arte, rispose: "E’ si conosce".

Un simil motto disse a un pittore che avea dipinto una Pietà: che s’era portato bene, ch’ella era proprio una pietà a vederla. Intese che Sebastian Viniziano aveva a fare nella cappella di San Piero a Montorio un frate, e disse che gli guasterebbe quella opera; domandato de la cagione, rispose che avendo eglino guasto il mondo, che è si grande, non sarebbe gran fatto che guastassero una cappella sí piccola. Aveva fatto un pittore una opera con grandissima fatica e penatovi molto tempo, e nello scoprirla aveva acquistato assai, fu domandato Michele Agnolo che gli parea del fattore di quella, rispose: "Mentre che costui vorrà esser ricco sarà del continuo povero". Uno amico suo, che già diceva messa et era religioso, capitò a Roma, tutto pieno di puntali e di drappi, e salutò Michele Agnolo, et egli s’infinse di non vederlo, perché fu l’amico sforzato fargli palese il suo nome; maravigliossi Michel Agnolo che fosse in quello abito, poi soggiunse quasi rallegrandosi: "O voi sete bello! se fosse cosí dentro, come io vi veggo di fuori, buon per l’anima vostra".


Mentre che egli faceva finire la sepoltura di Giulio, fece a uno squadratore condurre un termine, che poi alla sepoltura in San Piero in Vincola pose, con dire: "Lieva oggi questo, e spiana qui, e pulisci qua"; di maniera che senza che colui se n’avvedessi, gli fé fare una figura. Perché finita colui maravigliosamente la guardava, disse Michele Agnolo: "E che te ne pare?" "Parmi bene - rispose colui - e v’ho grande obligo" "Perché?" soggiunse Michele Agnolo. "Perché io ho ritrovato per mezzo vostro una virtú che io non sapeva d’averla". Un suo amico raccomandò a Michele Agnolo un altro pur suo amico, che aveva fatto una statua, pregandolo che gli facesse dare qualcosa piú; il che amorevolmente fece. Ma l’invidia dello amico, che richiese Michele Agnolo credendo che non lo dovesse fare, veggendo che pure l’avea fatto se ne dolse, e tal cosa fu detta a Michele Agnolo; onde rispose che gli dispiacevano gli uomini fognati: stando nella metafora della architettura, intendendo che con quegli ch’hanno due bocche mal si può praticare. Domandato da uno amico suo quel che gli paresse d’uno che aveva contrafatto di marmo figure antiche, de le piú celebrate, vantandosi lo imitatore che di gran lunga aveva superato gli antichi, rispose: "Chi va dietro altrui, mai non gli passa inanzi". Aveva non so chi pittore fatto una opera, dove era un bue che stava meglio de l’altre cose; fu domandato perché il pittore aveva fatto piú vivo quello che l’altre cose, disse: "Ogni pittore ritrae se medesimo bene". Passando da San Giovanni di Fiorenza gli fu domandato il suo parere di quelle porte, et egli rispose: "Elle sono tanto belle, che starebbono bene alle porte del Paradiso".

Però, come nel principio dissi, il Cielo per essempio nella vita, ne’ costumi e nelle opere l’ha qua giú mandato, acciò che quegli che risguardano in lui, possino imitandolo, accostarsi per fama alla eternità del nome; e per l’opere e per lo studio, alla natura; e per la virtú al Cielo, nel medesimo modo che egli alla natura et al cielo ha di continuo fatto onore. E non si maravigli alcuno che io abbia qui descritta la vita di Michelagnolo vivendo egli ancora, perché non si aspettando che e’ debbia morir già mai, mi è parso conveniente far questo poco ad onore di lui, che quando bene come tutti gli altri uomini abbandoni il corpo, non si troverrà però mai alla morte delle immortalissime opere sue: la fama delle quali mentre ch’e’ dura il mondo, viverà sempre gloriosissima per le bocche de gli uomini e per le penne degli scrittori, mal grado della invidia et al dispetto della morte.