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Il gabbiano Jonathan Livingston | Seconda parte

Richard Bach: "Al vero Gabbiano Jonathan che vive nel profondo di tutti noi!"

Richard Bach and Jonathan Livingston Seagull

Sicché questo è il paradiso, egli pensò, e gli venne da sorridere fra sé. Non era mica molto rispettoso, criticare il paradiso, quando ancora non ci sei manco arrivato.
Provenienti dalla Terra, oltre le nubi, lui e gli altri due gabbiani volavano in formazione compatta, e d’un tratto, egli si accorse che il suo corpo si era fatto splendente come il loro. Sì sì, lui era sempre il gabbiano Jonathan, era lo stesso giovane gabbiano che sempre si era sentito, dentro di sé, di essere: solo che la forma esteriore era cambiata, adesso.
Il suo pareva sempre un corpo di gabbiano, ma già volava molto molto meglio di quello di prima. Guarda qua, disse a se stesso, ora con metà fatica vado il doppio più veloce: due volte tanto, rispetto ai miei migliori risultati sulla terra!
Le sue penne splendevano adesso d’un candore soave, le sue ali erano lievi, lisce come d’argento polito, perfette. Si mise subito, tutto contento, a provarle, a imparare a usarle, a imprimere potenza alle sue nuove ali.

Mario Lupo | Il Volo di Gabbiani, 1975

A duecentocinquanta miglia all’ora, capì che era vicino al limite massimo di velocità per volo orizzontale. A duecentosettantatré, si rese conto che più di così non sarebbe riuscito a forzare, e ne fu un attimo deluso. V’era un limite oltre il quale, anche col suo nuovo corpo, non si andava. E benché fosse molto superiore al suo antico primato, era pur sempre un limite anche quello. E avrebbe durato fatica, a superarlo. In paradiso - pensò - non dovrebbero esserci limiti!

Si aprì uno squarcio fra le nubi, i due uccelli di scorta gli augurarono: - "Buon atterraggio, Jonathan!" e svanirono nell’aria.
Egli stava volando sopra un mare, verso una costa tutta frastagliata. Qualche raro gabbiano, sulla scogliera, volteggiava sfruttando le correnti ascensionali. Più lontano, verso nord, all’orizzonte quasi, pochi altri volavano.
Le novità che vede fanno nascere in lui nuovi pensieri, nuovi interrogativi. Perché sono così poco numerosi, qui, i gabbiani? Il paradiso dovrebbe essere gremito! E perché, tutt’a un tratto, mi sento così stanco? In paradiso non si dovrebbe né patir stanchezza né aver sonno.
Ma dov’è che l’aveva inteso dire? La sua memoria si faceva labile, sempre più si affievolivano i ricordi della vita terrena. Sulla terra, certo, certo, lui aveva imparato tante cose, ma i particolari adesso erano tutti sfocati: là ci si affanna per procurarsi il cibo… là una volta aveva esiliato…

I gabbiani della costa, una dozzina, gli volarono incontro, ma nessuno di loro disse niente. Tuttavia, lui avvertì che era il benvenuto, e che lì era di casa. Era stato un gran giorno, per lui, quello, un giorno di cui però non ricordava l’aurora.

Virò per atterrare sulla spiaggia. Si sostenne un istante battendo le ali, a un centimetro dal suolo, poi lieve si posò sopra la sabbia.
Gli altri gabbiani atterrarono anch’essi, ma nessuno di loro batté neanche una piuma. Volteggiavano nell’aria ad ali aperte e poi, non si sa come, mutata l’inclinazione delle penne, eccoli fermi nello stesso istante in cui le zampe toccavano terra.
Jonathan ammirò la loro tecnica, ma era troppo sfinito per provarcisi anche lui. E su quella spiaggetta, senza avere scambiato una parola, si addormentò.

Nei giorni che seguirono, Jonathan si avvide che c’eran tante cose da imparare, sul volo, in quel luogo, quante cose ce n’eran state nella vita che si era lasciata alle spalle. Ma una differenza c’era. Qui, gli altri gabbiani la pensavano come lui. Per ciascuno di loro, la cosa più importante della vita era tendere alla perfezione in ciò che più importava, cioè nel volo. Erano uccelli magnifici, tutti quanti, e ogni giorno passavano ore e ore a esercitarsi nel volo, a cimentarsi in acrobazie sempre più difficili.

Passò parecchio tempo e Jonathan pareva proprio essersi scordato dell’atro mondo, donde era venuto, del luogo natìo dove lo Stormo campava la sua magra vita, incurante della gioia di volare, adoprando le ali solamente per ricercare e procacciarsi il cibo. Però di tanto in tanto, per un attimo, se ne ricordava.

E se ne rammentò una mattina, mentre era fuori con il suo istruttore, e insieme riposavano sul lido, dopo una serie di spericolati mulinelli nell’aria.

- "Ma dove sono tutti quanti, Sullivan?" domandò, senza emettere alcun suono (dato che ormai s’era impratichito della telepatia che quei gabbiani adoperavano per comunicare, anziché strida e gracchiamenti).
- "Perché siamo così pochi, qui? Sai, là, da dove vengo io, di gabbiani ce n’erano…"
- "…a migliaia e migliaia, lo so". Sullivan scosse la testa.
- "Cosa vuoi che ti dica? Mi sa tanto che tu, Jonathan, sei un uccello come se ne trova uno su un milione. Per lo più, noialtri ci abbiam messo un’infinità di tempo ad arrivare fin qui. Passavamo da un mondo all’altro, ognuno quasi uguale al precedente, e, subito, ci si scordava donde venivamo né c’importava dove fossimo diretti. Insomma, si viveva alla giornata. Hai idea di quante vite ci sarà toccato vivere, prima che ci passasse pel cervello che c’è, al mondo, qualcos’altro che conta, oltre al mangiare, al beccarci fra di noi, oltre insomma alla Legge dello Stormo? Ma mille vite, Jon, ma diecimila! E poi, dopo quel primo piccolo barlume, saranno occorso altre cento vite prima che cominciassimo a intuire che c’è una cosa chiamata perfezione. E poi, altre cento prima di capire che lo scopo della vita è appunto quello di adeguarci il più possibile a quell’ideale. S’intende che per noi vale la stessa regola, anche adesso: scegliamo il nostro mondo successivo in base a ciò che apprendiamo in questo. Se non impari nulla, il mondo di poi sarà identico a quello di prima, e avrai anche là le stesse limitazioni che hai qui, gli stessi handicap".
Distese le ali, si girò pronto a levarsi. - "Ma tu, Jon", soggiunse - "tu hai imparato tante cose in una volta che non sei dovuto passare attraverso un migliaio di vite per arrivare a questa".

Mario Lupo | Il gabbiano Jonathan Livingston (particolare) | San Benedetto del Tronto

Di lì a un momento, eccoli di nuovo librati in cielo, a esercitarsi. I mulinelli in formazione gli riuscivano difficili poiché, durante la fase rovesciata di quella manovra, a Jonathan toccava anche pensare alla rovescia, per invertire la curva della propria ala e invertirla in armonia con quella del suo istruttore.

- "Proviamo di nuovo" diceva Sullivan, e poi ancora: - "Riproviamo", e ancora. Poi, alla fine: - "Bravo". Quindi cominciarono a esercitarsi nella gran volta.

Una sera, i gabbiani che non erano impegnati in prove di volo notturno, se ne stavano insieme sulla spiaggia, ciascuno immerso nei propri pensieri. Jonathan, fattosi coraggio, si avvicinò al Gabbiano Anziano (si diceva che costui fosse prossimo ormai a trasmigare in un mondo più evoluto).
- "Ciang…" lo chiamò, con un po’ di titubanza.
Il vecchio lo guardò affabilmente: - "Che c’è figliolo?"
La tarda età, anziché indebolirlo, gli aveva conferito maggior vigore: volava meglio di qualsiasi altro ed era già padrone di esercizi di cui gli altri dello Stormo conoscevano appena i rudimenti.
- "Ciang, questo mondo non è il paradiso, dico bene?"
L’Anziano ebbe un sorriso, nel chiarore della luna. - "Non si finisce mai d’imparare, Jonathan" disse.
- "Ma allora, dopo qui, cosa ci aspetta? Dove andremo? E un posto come il paradiso c’è o non c’è?"
- "No, Jonathan, un posto come quello, no, non c’è. Il paradiso non è mica un luogo. Non si trova nello spazio, e neanche nel tempo. Il paradiso è essere perfetti". Tacque un minuto, e poi: - "Tu sei uno che vola velocissimo, nevvero?".
- "Mi… mi piace andare forte" disse Jonathan, preso alla sprovvista, ma fiero che l’Anziano se ne fosse accorto.
- "Raggiungerai il paradiso, allora, quando avrai raggiunto la velocità perfetta. Il che non significa mille miglia all’ora, né un milione di miglia, e neanche vuol dire andare alla velocità della luce. Perché qualsiasi numero, vedi, è un limite, mentre la perfezione non ha limiti. Velocità perfetta, figlio mio, vuol dire solo esserci, esser là".

Senza alcun preavviso, Ciang scomparve. Per riapparire in un batter d’occhio a una ventina di metri da lì, sulla riva del mare. Poi di nuovo sparì e si ritrovò, nella stessa frazione di secondo, accanto a Jonathan.
- "Pare un giochetto" disse.
Jonathan era sbalordito. Dimenticò di fare altre domande sul paradiso e chiese, invece: - "Ma come ci riesci? Che effetto fa? E fin dove riesci ad arrivare?"

- "Puoi arrivare da qualsiasi parte, nello spazio e nel tempo, dovunque tu desideri" disse l’Anziano.
- "Io mi sono recato in ogni luogo possibile e immaginabile, in ogni dove e in ogni quando". Lanciò uno sguardo al mare, all’orizzonte. - "E’ buffo. Quei gabbiano che non hanno una meta ideale e che viaggiano solo per viaggiare, non arrivano da nessuna parte, e vanno piano. Quelli invece che aspirano alla perfezione, anche senza intraprendere alcun viaggio, arrivano dovunque, e in un baleno. Ricordati, Jonathan, il paradiso non si trova né nello spazio né nel tempo, poiché lo spazio e il tempo sono privi di senso e di valore. Il paradiso è…"

- "Mi potresti insegnare a volare in quel modo?" E Jonathan fremeva tutto, all’idea di una nuova vittoria sull’ignoto.
- "S’intende, se desideri imparare".
- "Lo desidero, sì. Quando si comincia?"
- "Anche adesso, se ti va".
- "Voglio imparare a volare in quel modo" disse Jonathan, e una strana luce brillava nei suoi occhi. - "Dimmi cosa devo fare".

Ciang parlò con lentezza, fissando attentamente il suo giovane interlocutore.
- "Per volare alla velocità del pensiero, verso qualsivoglia luogo", disse - "tu devi innanzitutto persuaderti che ci sei già arrivato".

Il segreto, secondo Ciang, stava tutto qui: Jonathan doveva smettere di considerare se stesso prigioniero di un corpo limitato, un corpo avente un’apertura di centodieci centimetri e i cui itinerari potevano venir tracciati su una carta nautica. Il segreto consisteva nel sapere che la sua vera natura viveva, perfetta come un numero non scritto, contemporaneamente dappertutto, nello spazio e nel tempo.
Jonathan si applicò, furiosamente, giorno dopo giorno, da prima dell’alba a dopo la mezzanotte. Ma per quanti mai sforzi facesse, non riusciva a spostarsi di un’unghia.
- "Lascia perdere la fede!" ripeteva sempre Ciang. - "Non t’è mica servita, la fede, per volare. T’è bastato l’intelletto: capire la faccenda. E qui è la stessa cosa, Su, riprova".
Poi un giorno, sulla spiaggia, a occhi chiusi, concentrato in se stesso, Jonathan afferrò, in un baleno, quel che Ciang voleva dire.
- "Ma è vero! Io sono un gabbiano perfetto, senza limiti né limitazioni!" E provò un grande brivido di gioia.
- "Bravo!" gli disse Ciang, e il suo tono era di vittoria.
Jonathan riaprì gli occhi. Si trovava, con l’Anziano, loro due soli, da qualche altra parte. Erano su una spiaggia sconosciuta. C’erano alberi fin sulla riva del mare, e due astri gemelli splendevano in cielo.
- "Finalmente hai capito il principio", disse Ciang - "anche se, naturalmente, la tua tecnica va alquanto dirozzata".
Jonathan era scombussolato. - "Dove siamo?"
Del tutto indifferente a quello strano paesaggio, l’Anziano gli rispose in modo vago: - "Siamo, è ovvio, su n qualche pianeta con il cielo verde e un duplice astro per sole!"
Jonathan ruppe in un grido di gioia, il primo suono che emettesse da quando aveva lasciato la terra. - "FUNZIONA!"


- "Sicuro che funziona, Jon" disse Ciang. - "Funziona sempre, quando sai quel che fai. Dunque, per quello che riguarda la tua tecnica…"
Quando furono di ritorno, era già buio. Gli altri gabbiani guardavano Jonathan sbigottiti, ammirati: l’avevano pur visto scomparire, così, su due piedi.
Presero a fargli le congratulazioni, ma lui tagliò corto: - "Sono io il novellino, qui. Sono alle prime armi. Ho tantissime cose da imparare da voi, altroché".
- "Non direi, Jon" gli disse Sullivan, lì accanto.
- "Tu sei quello che ha meno paura d’imparare, fra tutti i gabbiani che ho visto in diecimila anni". Lo Stormo ammutolì, e Jonathan si gingillava, pieno d’imbarazzo.
- "Bene. Possiamo cominciare a occuparci del fattore tempo, se ti va" gli disse Ciang.
- "E ci si lavora su finché non arrivi al punto che sei in grado di volare nel passato e nel futuro. E, poi dopo, uno è pronto per la parte più difficile, più forte, ma anche più piacevole di tutte. Uno è pronto per volare verso le alte sfere, e arrivare a capire il segreto della bontà e dell’amore".

Trascorse un mese, o qualcosa che sembrò durare un mese, durante il quale Jonathan fece progressi sorprendenti.
Aveva sempre avuto facilità d’apprendimento, ma adesso, come discepolo prediletto dell’Anziano, assimilava le nozioni alla velocità di un computer, un cervello elettronico piumato.
Ma poi un giorno arrivò la scomparsa di Ciang.
Era lì insieme a loro che parlava, con calma, a tutti quanti, esortandoli a non desistere mai dallo studio, a perseverare nelle esercitazioni, ad approfondire la loro conoscenza di quel perfetto invisibile principio che governa la vita dell’universo.
Quando’ecco, sempre più, mentre parla così, le sue penne si fanno più splendenti, sempre più, finché alfine nessuno dei gabbiani riesce a sostenerne più la vista.

- "Jonathan", disse Ciang, e queste furono le sue ultime parole, - "tu séguita a istruirti sull’amore".
Quando gli occhi abbagliati tornarono a vedere, Ciang non c’era più.

Man mano che i giorni passavano, sempre più di frequentemente capitava a Jonathan di ripensare alla Terra donde era venuto.
Se laggiù lui avesse conosciuto solo una decima, anche sono una centesima parte, delle cose che adesso sapeva, quanto più senso avrebbe avuto allora, la vita!
Chissà, si domandava, riposando sul lido, chissà se laggiù adesso ci sarà qualche gabbiano che lotta e s’arrovella per superare i propri limiti, per scoprire come il volo non sia solo qualcosa per procurarsi un tozzo di pan secco, sulla scia d’una barchetta.
Chissà se qualcun altro sarà stato esiliato come me per aver proclamato le sue idee al cospetto dello Stormo.
E più Jonathan ripassava le lezioni di bontà, più meditava sulla natura dell’amore, più cresceva, in lui, la nostalgia della Terra.
Poiché, nonostante la vita solitaria che gli era toccato condurre, il gabbiano Jonathan era nato per fare l’insegnante. E, per lui, mettere in pratica l’amore voleva dire rendere partecipe della verità da lui appresa, conquistata, qualche altro gabbiano che a quella stessa verità anelasse.
Sullivan - anche lui era dedito, adesso, ai voli alla velocità del pensiero, ed aiutava gli altri ad imparare - non ne era mica tanto convinto però.

- "Tu eri un esule, Jon, ai tuoi tempi, eri un Reietto.
E come puoi illuderti che adesso i gabbiani, gli stessi di allora, ti ascolterebbero? Tu conosci il proverbio, e dice il vero: Più alto vola il gabbiano, e più vede lontano. Ma quei gabbiani lì, dalle tue parti, non si levano quasi da terra, stanno sempre a schiamazzare e far baruffe fra di loro.
Sono lontani le mille miglia dal cielo, e tu vorresti farglielo vedere, il paradiso da laggiù dove si trovano?
Jon, quelli lì non vedono al di là del proprio becco!
Resta qui. Qui puoi dare una mano ai novellini, che però sono abbastanza evoluti per intenderti".
Tacque un attimo poi soggiunse: - "E se Ciang fosse tornato al vecchio mondo prima della sua venuta qui? Di’ un po’, cosa saresti, oggi, tu?"

Questo era un argomento convincente. Sì, Sullivan aveva ragione. Più alto vola il gabbiano, e più vede lontano.

Quindi Jonathan rimase e si dedicò a istruire le reclute, man mano che arrivavano: erano uccelli molto svegli e, tutti, imparavano assai presto. Ma la vecchia nostalgia tornava a pungerlo. Non poteva far a meno di pensare che forse c’erano, sulla Terra, due tre gabbiani in grado di trarre profitto dai suoi insegnamenti. Quanto più ne saprebbe, a quest’ora, lui, se Ciang gli fosse stato accanto, nel suo esilio!
- "Sully, devo tornare" disse infine. - "I tuoi allievi già se la cavano bene. Ti aiuteranno loro, a tirar su le nuove reclute".
Sullivan sospirò, ma non discusse. Disse soltanto: - "Sentirò la tua mancanza, Jonathan".
- "Che dici mai? Sully, vergogna!" lo rimproverò Jonathan.
- "Via, non dire sciocchezze! Cosa studiamo a fare, tutto il giorno? Se la nostar amicizia dipendesse da cose come lo spazio e il tempo, allora, una volta superati spazio e tempo, noi avremmo anche distrutto questo nostro sodalizio! Non ti pare? Ma se superi il tempo e lo spazio, non vi sarà nient’altro che l’Adesso e il Qui, il Qui e l’Adesso. E non ti sa che, in questo Hic et Nunc, noi avremo l’occasione di vederci, eh, ogni tanto?"

Mario Lupo | Il gabbiano Jonathan Livingston (particolare) | San Benedetto del Tronto

Il gabbiano Sullivan fu mosso a ridere, suo malgrado.
- "Che uccello matto che sei" disse in tono affettuoso. - "Semmai c’è uno che possa insegnargli, a quei rasoterra laggiù, a vedere lontano mille miglia, questi è il gabbiano Jonathan Livingston".
Abbassò gli occhi, contemplò la sabbia. - "Addio, Jon, amico mio".
- "Arrivederci, Sully. Ci rivedremo ancora".

Detto questo, Jonathan si concentrò col pensiero per trasferirsi con esso un un’altra spiaggia e in un altro tempo, laggiù, dove vola un grande stormo di gabbiani. Ormai sapeva bene di non essere di carne e ossa e penne, ma un’idea: senza limiti né limitazioni, una perfetta idea di libertà.

Il gabbiano Fletcher Lynd era giovane ancora, però era certo che nessun gabbiano avesse mai subito un trattamento più duro del suo, da qualsivoglia Stormo, né avesse mai patito ingiustizia peggiore.

Non me n’importa niente, di come la pensano loro!, rimuginava fra sé, furioso, mentre volava verso le Scogliere remote, e la rabbia gli offuscava la vista. Dicano quel che gli pare, ma volare non vuol dire soltanto portarsi da qua a là sbatacchiando le ali! Perfino un… una zanzara ne è capace!
Solo per aver eseguito qualche evoluzioncella, così, per gioco, sopra il capo dell’Anziano, m’hanno esiliato! Eccomi Reietto! Ma non vedono? Ma sono proprio ciechi? Non si rendono conto dell’ebbrezza che potrebbero provare se anche loro imparassero a volare sul serio?

Che m’importa di come la pensano quelli! Glielo farò vedere io, cosa s’intende per volare! Io sarò un fuorilegge, se è a questo che han voluto ridurmi, ma li farò pentire amaramente…
A questo punto udì dentro di lui una voce e, per quanto soave essa fosse, ne prese un tale spavento che vacillò e perdette l’equilibrio.
- "Via, non essere duro con loro, Fletcher. Esiliando te, è a se stessi che hanno fatto del male. Un giorno i loro occhi si apriranno. E allora la vedranno come te. Perdonali, e aiutali a capire".
Guardò e vide alla sua destra - le ali quasi si toccavano - il più splendido e bianco dei gabbiani volare senza sforzo accanto a lui, senza muovere una penna, e sì che lui filava, quasi al massimo.

Per un po’ regnò il caos nel cranio del giovane uccello.
Che cosa mi succede? Sono matto? Sono morto? Che cos’è questo?
Dolce e pacata, al voce parlò ancora e domandò: - "Gabbiano Fletcher Lynd, ora rispondi, tu desideri volare?"
- "SI’, DESIDERO VOLARE!"
- "Gabbiano Fletcher Lynd, sei disposto ad amare tanto il volo da perdonare i torti che hai subito, e un giorno tornar là presso lo Stormo, e adoprarti perché gli altri imparino?"
Non sarebbe valso a niente mentire a quell’essere arcano e stupendo, per ferito che uno fosse nel suo orgoglio.
- "Son disposto, sì" rispose Fletcher Lynd a voce bassa.
- "Allora, Fletch", gli disse quella splendida creatura, in un tono di voce molto affabile, "cominceremo con il volo orizzontale…"


Il gabbiano Jonathan Livingston, 1970 | Prima parte
Il gabbiano Jonathan Livingston | Terza parte