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Paul Gauguin | Where Do We Come From? What Are We? Where Are We Going? 1897



In 1891, Paul Gauguin* left France for Tahiti, seeking in the South Seas a society that was simpler and more elemental than that of his homeland.
In Tahiti, he created paintings that express a highly personal mythology. He considered this work -created in 1897, at a time of great personal crisis- to be his masterpiece and the summation of his ideas.
Gauguin’s letters suggest that the fresco-like painting should be read from right to left, beginning with the sleeping infant.

He describes the various figures as pondering the questions of human existence given in the title; the blue idol represents "the Beyond". The old woman at the far left, "close to death", accepts her fate with resignation. | © Museum of Fine Arts, Boston




Where Do We Come From? What Are We? Where Are We Going? is a painting by French artist* Paul Gauguin*.
Gauguin inscribed the original French title in the upper left corner: D'où Venons Nous / Que Sommes Nous / Où Allons Nous.
The inscription the artist wrote on his canvas has no question mark, no dash, and all words are capitalized.
In the upper right corner he signed and dated the painting: P. Gauguin / 1897.
The painting was created in Tahiti, and is in the Museum of Fine Arts in Boston, Massachusetts, USA.















Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? è un dipinto del 1897 di Paul Gauguin* a olio su tela (141 x 376 cm). Tale dipinto è stato portato solamente due volte in Europa, una prima volta a Parigi mentre la seconda volta a Genova nel 2011-2012 per essere esposto alla mostra "Van Gogh* e il viaggio di Gauguin" (novembre 2011- aprile/maggio 2012).
  • Storia
L'opera, che pone i massimi quesiti esistenziali dell'uomo, fu dipinta dall'artista a Tahiti in un momento assai delicato della sua vita: prima di un tentativo non riuscito di un suicidio (l'artista era malato, aveva seri problemi al cuore ed era sifilitico, in lotta con le autorità locali ed isolato sia fisicamente che artisticamente).
Ad aggravare le cose, giunse a Gauguin la notizia della morte della figlia prediletta Aline, avvenuta pochi mesi prima. Il dolore per la perdita spinse l'artista a creare un'opera di grandi dimensioni (la più grande del suo opus) che fosse una riflessione sull'esistenza, un testamento spirituale e quindi una summa di tutte le sue ricerche cromatiche e formali degli ultimi otto anni.
Gauguin descrisse per la prima volta il quadro come un acquerello in una lettera spedita all'amico Daniel de Monfreid; dopo alcuni schizzi preparatori, il pittore vi lavorò notte e giorno per circa un mese, imponendosi un ritmo di lavoro frenetico che finì col prostrarlo; fu così che, ritenendosi incapace di finire il dipinto, Gauguin tentò di suicidarsi ingerendo arsenico, ma la dose troppo forte e presa di getto determinò un forte vomito che annullò l'effetto del veleno.
Il dipinto fu poi arrotolato e spedito a Parigi al mercante d'arte Ambroise Vollard, che così stipulò un contratto redditizio col pittore, assicurandosi l'esclusiva della sua opera.
  • Descrizione e stile
Concepita come il fregio di un tempio (numerosissimi sono i richiami alle figure del Partenone, ai templi di Giava e alla cultura maori), dà l'idea di un affresco, poiché presenta i bordi rovinati. Nei bordi inserisce il titolo dell'opera (a sinistra) la firma e la data (a destra), altro elemento tipico dell'arte bizantina.
L'opera va letta da destra a sinistra (appunto all'orientale) come un ciclo vitale disposto ad arco: non a caso, all'estrema destra è raffigurato un neonato, che già dal momento della nascita è lasciato nell'indifferenza di chi lo circonda.
Al centro un giovane (l'unico personaggio maschile adulto) sta cogliendo un frutto e può essere interpretato in due modi:
  • Come richiamo al peccato originale
  • Come simbolo della gioventù che coglie la parte migliore dell'esistenza.
Alle spalle del ragazzo, una figura con il gomito in alto contribuisce a definire la struttura triangolare della prima metà, al cui vertice sono messe in risalto le due figure rosse sullo sfondo, emblematiche e con l'aria di chi ordisce trame nell'ombra: esse sono simbolo dei tormenti e delle domande che giacciono nel profondo di ogni animo, che peraltro danno il titolo al quadro.
La stessa struttura si ritrova nella seconda metà del dipinto, speculare rispetto all'uomo centrale. Al vertice troviamo stavolta la divinità, anch'essa col suo significato simbolico: l'inutilità e la falsità della bugia religiosa, magra consolazione e senso provvisorio di una vita in realtà vana.
All'estrema sinistra troviamo una vecchia raggomitolata su di sé (identica ad una mummia peruviana vista dal pittore in gioventù) in attesa della morte, trasfigurata in un urlo quasi munchiano dinnanzi alla vacuità di senso dell'esistenza (piuttosto che per la paura della morte, dall'artista abbracciata almeno nelle intenzioni dopo la conclusione dell'opera). Infine, uno strano uccello bianco con una lucertola tra le zampe, simbolo della vanità delle parole, chiude la lettura del dipinto.
Lo sfondo rappresenta la vegetazione in maniera sintetica: i rami si trasformano in arabeschi (decorazione doppia); i colori sono antinaturalistici, infatti gli alberi sono blu.
Le due figure di giovani accovacciate su entrambi i lati e l'idolo blu della dea Hina sul fondo compaiono in molte opere dello stesso periodo.